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40 ANNI FA IL CASO TORTORA – ECCO COSA FU DAVVERO

Riferimenti bibliografici e articoli dai quali sono state tratte ulteriori informazioni e ripresi passaggi inerenti alla vicenda:

  • Passi di “Il caso Tortora”, di Luca Steffenoni, Chiarelettere, 2018;
  • “Un Paese di guitti senza dignità”, di Stefano Cappellini, pubblicato su La Repubblica, 1 aprile 2023;
  • “Testa alta, e avanti. In cerca di giustizia, storia della mia famiglia”, di Gaia Tortora, Mondadori, 2023.

 A cura di Carmine Caramante

Per spiegare a un ragazzo o una ragazza di oggi quale fu l’impatto della notizia dell’arresto di Enzo Tortora nel 1983 si potrebbe dire: immaginate se arrestassero oggi Fiorello o Amadeus con l’accusa di essere camorristi e grandi trafficanti di droga. Dovrebbe rendere l’idea, sebbene forse Tortora, all’epoca, fosse sicuramente più popolare di Fiorello e Amadeus. Gli attori di questa tragedia sono piano piano venuti alla luce. Numerosi, e ognuno con la sua fetta di responsabilità. Alcuni sapevano scientemente quello che facevano e le finalità che perseguivano. Altri, per primi i giudici e i pm napoletani, furono travolti in un vortice dal quale non riuscirono ad uscire se non a costo di far naufragare l’intera istruttoria. Detenuti senza nulla da perdere, Democrazia Cristiana, Ministero dell’Interno e Ministero di Grazia e Giustizia, Sismi, Sisde, istituzioni e non ultima una stampa accucciata ai piedi del potere. Molti questa storia non la possono più raccontare. Qualcuno, come l’onorevole dc Ciro Cirillo o come il killer delle carceri Pasquale Barra, ha concluso la sua esistenza nel proprio letto, i più sono saltati in aria a bordo di macchine imbottite di tritolo, ammazzati sotto i colpi dei kalashnikov, sepolti dentro blocchi di cemento. Qualcuno però ha parlato, e ciò è stato sufficiente per porre il caso Tortora sotto una luce diversa.

Quando un complotto va in scena, non tutti gli attori si conoscono. Non ci si ritrova attorno ad un tavolo a pianificare cosa fare e perché farlo. Da un’azione data si innescano a catena delle cointeressenze, ovvero degli obiettivi comuni perseguibili, a volte, senza muoversi, restando fermi. Questo avvenne per esempio nel caso Moro allorquando, dopo il massacro della scorta e il rapimento del presidente in via Fani (azione data delle BR), sia la DC (che dopo le lettere dalla prigione del popolo avrebbe avuto più danni da un Moro liberato che morto), sia il Kgb (che temeva l’operazione riformista di Moro di portare il PCI al governo), sia il Mossad (a causa del Lodo firmato da Moro con l’Olp di Arafat) che la CIA (Kissinger aveva già anni prima pesantemente ammonito – se non minacciato – Moro sull’apertura al PCI) si ritrovarono, pur da fronti e lati opposti, contemporaneamente interessati a che lo statista non uscisse vivo da quella vicenda. Cosa fecero? Nulla, rimasero fermi abbandonando Moro al suo destino e, in altri casi, intrapresero azioni atte ad assicurarsi che non si giungesse alla liberazione dell’ostaggio. Cointeressenze, appunto. Come nel caso di Enzo Tortora. E quali furono?

Per le organizzazioni criminali e per la camorra in particolare, l’obiettivo principale era quello di screditare i pentiti. Il processo alla NCO, scaturito dal maxi blitz del 1983, si reggeva tutto sulle dichiarazioni di un numero cospicuo di persone che avevano scelto la strada della collaborazione giudiziaria come loro ultima ancora di salvataggio per evitare pene carcerarie durissime o, in molti casi, la loro eliminazione fisica. I vertici delle organizzazioni criminali vedevano in questo nuovo fenomeno del pentitismo o della dissociazione una minaccia pericolosissima che andava, in tutti i modi, disinnescata. Ed ecco che entrano in gioco le cosiddette “menti raffinatissime”, tanto per utilizzare l’espressione che, anni dopo, Giovanni Falcone coniò per descrivere quell’universo che sovrintendeva e si legava a Cosa Nostra. Queste entità fisiche hanno diretto l’orchestra dei pentiti affinché le dichiarazioni di questi ultimi prima fossero il caposaldo dell’accusa e poi, al momento chiave, quello del processo di appello, si squagliassero come una granita al sole di Mergellina facendo cadere tutto il castello e l’intero maxiprocesso alla NCO suddiviso in ben 4 tronconi. Ma, per fare questo, serviva un nome altisonante, un nome di un imputato illustre, capace di attirare su di sé tutto il circo mediatico nazionale. Tortora, il personaggio televisivo più famoso dell’epoca, che ogni settimana entrava nelle case di 26milioni di telespettatori, diventa il perfetto imputato in grado di catalizzare ogni attenzione. Nessuno seguirà poi i successivi tre tronconi del processo, nei quali l’inchiesta verrà suddivisa e affidata ad altre sezioni del Tribunale di Napoli. Tronconi nei quali la credibilità degli accusatori, già fatta a pezzi dallo scandalo Tortora, porterà ad una marea di assoluzioni. L’imputato Tortora calzava a pennello anche per quei pezzi deviati dello Stato che all’epoca furono gli indiscussi protagonisti di una stagione di trame oscure. Sarà, infatti, buio totale sulla vicenda di Vincenzo Casillo, il tessitore dei rapporti tra Stato e Nuova Camorra Organizzata, tanto importante da essere ritenuto l’esecutore materiale dell’omicidio del banchiere di Dio, Roberto Calvi. Grazie al nome di Tortora, la trattativa per la liberazione di Cirillo, con il suo bagaglio di malaffare e ambigua assistenza dei servizi segreti, verrà seppellita nel dibattimento (a tutto vantaggio della DC di allora e dei suoi plenipotenziari). Tutti all’epoca, distratti dal clamore del nome di Enzo Tortora, non fecero caso al silenzio imposto a Raffaele Cutolo che non fu neppure chiamato in aula o sentito nel carcere dell’Asinara per paura che potesse parlare apertamente della trattativa per la liberazione di Cirillo del 1981, la prima nella storia delle trattative tra Stato e criminalità organizzata. Nessuno si accorse che, pur prospettandosi pomposamente come un maxiprocesso alla NCO, non vi erano coinvolti nomi di politici, di amministratori, di funzionari, di appaltatori e di subappaltatori. Ed ecco allora la messa in scena.

Il 28 marzo 1983 i togati interrogano l’ergastolano Giovanni Pandico e costui presenta una lista di presunti camorristi ad honorem. Ben ottanta nomi di insospettabili, che avrebbero agito come membri di una setta segreta, utilizzando la loro posizione professionale per piazzare carichi di cocaina. Nessun politico, ovviamente, nessun nome conosciuto al grande pubblico. Tutti, tranne uno, quello che Pandico colloca al sessantesimo posto. Tortora Enzo Claudio Marcello, conduttore televisivo. Pandico aveva fatto mettere a verbale che Raffaele Cutolo, tra il 1978 e il 1979, periodo nel quale viaggiava tranquillamente da nord a sud, benché ufficialmente latitante, avrebbe incontrato a Milano, grazie alla mediazione di Francis Turatello, il giornalista Enzo Tortora, proprio quello del pappagallo. Durante una serata in un appartamento di via Massarenti 26, presenti la padrona di casa, tale Nadia Marzano, il camorrista Giuseppe Palillo, Francis Faccia D’angelo e il boss di Ottaviano, Tortora si sarebbe offerto quale spacciatore di grandi quantitativi di cocaina all’interno del mondo dello spettacolo. Con innegabile beneficio per tutti i contraenti, il patto con il diavolo si sarebbe perfezionato, salutato da un brindisi e dal tradizionale rituale camorristico. Rito di affiliazione che per qualche incomprensibile miracolo non avrebbe lasciato antiestetiche cicatrici sul polso del presentatore. Da quel giorno Tortora sarebbe stato insignito dei gradi di camorrista ad honorem, una curiosa novità nello storico panorama della malavita campana. Purtroppo, per ristabilire la verità, bisognerà aspettare qualche anno e il processo di appello. “Lo sappiamo tutti, purtroppo – gridano in aula i pm napoletani – che se cade la posizione di Enzo Tortora si scredita tutta l’istruttoria”.

25 settembre 1985. Dal processo al terzo troncone della Nuova Camorra Organizzata è appena arrivata la dichiarazione di Mauro Marra. “Dichiaro che nel carcere di Campobasso nel 1984, a istruttoria ancora aperta, i pentiti Catapano, D’Amico, Melluso, Auriemma, Dignitoso e Barra avevano la possibilità di consultarsi tra loro e di mettersi d’accordo per coinvolgere innocenti”. Belluno, 29 novembre 1985, la lettera di Salvatore Sanfilippo. “Egregio signor Tortora, anzitutto le chiedo perdono per averla accusata ingiustamente, ho cercato di convincere i vari Pandico, i vari Melluso, della mostruosità di cui ci siamo macchiati, ma inutilmente. Essi mi hanno solo minacciato di morte, ma mi hanno anche costretto a riconfermare le accuse contro di lei, facendomi dire anche che lei stava progettando un attentato contro il pm Diego Marmo, per essere più credibile nella riconferma delle accuse”. Lo sbugiardamento della versione fornita dai pentiti davanti ai giudici ha assunto ormai la consistenza di una valanga destinata a travolgere Castel Capuano. Le picconate al muro del pentitismo raggiungono ormai cadenza settimanale e arrivano anche da Milano, dove Renato Vallanzasca e Angelo Epaminonda detto il Tebano, successore di Francis Turatello, stanno svelando ai giudici i chiaroscuri della malavita meneghina. “Gianni Melluso non ha mai conosciuto Francis Turatello”, dichiara il bel René nell’udienza del 4 luglio 1986. “Ignora che avesse un vistoso tatuaggio sul polso destro, non conosce i luoghi dove dice di aver consegnato la droga a Tortora, non conosce nemmeno il nome di Gianni Bongiovanni il Bongio, mitico gestore del Derby, conosciuto da ogni frequentatore del locale e da ogni malavitoso che si rispetti”. “Melluso non ha mai svolto alcuna attività con Turatello”, aggiunge Epaminonda. “Io posso dirlo perché avevo un ruolo primario nella banda. Escludo che la NCO gestisse a Milano un traffico di cocaina. In ogni caso io non lo avrei consentito”. Il castello di carte è crollato miseramente. Il 20 maggio 1986 un’auto della polizia penitenziaria mette finalmente fine a questo spettacolo. Gli agenti sono in via dei Piatti per tradurre il condannato fino a Napoli, dove inizia il processo d’appello.

Tortora venne condannato in primo grado a dieci anni di carcere. Uno scempio senza eguali. Un anno dopo la condanna in primo grado, viene assolto in appello, sentenza confermata dalla Cassazione il 13 giugno 1987, quattro anni dopo il suo spettacolare arresto. Torna anche a condurre in Rai, ma presto il suo fisico presenta il conto delle sofferenze subite: muore nel maggio del 1988, a 59 anni. La sua vicenda sembra inizialmente avere un effetto virtuoso sul sistema: si modificano i termini della carcerazione preventiva, nel 1987 si celebra un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati che, pur vinto, non avrà alcun effetto concreto. Al contrario alcuni dei metodi sperimentati su di lui diventeranno strutturali anche grazie al lato oscuro di Tangentopoli, che spesso si oppose alla dilagante corruzione della politica con la corruzione dello Stato di diritto, come già era avvenuto nel corso delle altre emergenze nazionali, cioè terrorismo e mafia: abuso della custodia cautelare, cambio in corsa dei capi di imputazione, inversione dell’onere della prova, restrizione dei diritti di difesa. Pratiche che non sono meno gravi se applicate ai colpevoli, oltre che agli innocenti.

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