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IPNOSI PROFETICA

[…] Ed è vero e comprensibile che gli occhi realmente aperti non si chiudano mai: in una costante ansia da prestazione con la mente, essi devono supportare l’immagine più giusta, hanno l’esigenza di proiettare il profilo migliore di una parte di mondo che si sente sgretolare pezzo dopo pezzo ma se ne vuole ugualmente preservare la sua illusoria essenza. È una missione, spontanea, come la nascita di coloro che posseggono questi occhi, vedere il possibile e il dopo in un istante preciso, combattere la sovrapposizione frenetica di tante scene; è un dono, una dannazione. Giacché questi “amabili” occhi non si cullano nelle strade, non vedono albe senza scorgerne i tramonti, non rose senza spine dolorose, immaginate, lettori, quanto riposo trovino durante la notte! Il tempo del sonno a momenti farà sprofondare i loro corpi in un’atarassica situazione di buio e dimenticanza, il nulla senza eco; a momenti li farà coscienti di un anonimo vagare in spazi percorsi sotto il sole con improvvise mitragliate di visi e persone, esplosivi di vario genere, la confusione con il ricordo e poi la sciocca e irrealistica novità sul quotidiano; solo in pochi momenti riusciranno a sognare davvero, e lo faranno dicendo addio al mondo che hanno conosciuto. Loro sono occhi aperti anche quando riposano. Quando e “se” riposano, essi creano. Vedono, vedono sempre. Uno spazio chiaro ed immenso, senza contorni né sbavature, magnetizza le mie pupille immobili e fisse mentre il corpo dorme. Sento il vento soffiare forte e l’avvicinarsi di una tempesta di neve e poi un castello angioino-aragonese, sono nel castello di Agropoli. Sfarzoso, come alle origini, è abitato, anzi pullulante di uomini e donne distinti per abiti e colori, per voci e movenze: tutto così caotico, tutto così tremendamente confusionario! Mi si avvicina una cagnetta e morde, per gioco, il nastro dorato del mio lungo abito verde, mentre tento di sedermi al lungo tavolo e gustare un cosciotto di pollo. Le risate si fondono con la musica di qualche traballante menestrello. Scende, dalle scale che conducevano alle stanze reali, il sovrano, una figura non chiara, ombrosa, estremamente autorevole. La sua aurea si percepiva in lontananza ed anche il rumore dei suoi pesanti stivali minacciosi. Tutti immobili, compresa io, c’inchinammo e con un suo cenno il chiacchiericcio riprese e con esso le risate sguaiate, i lamenti, i rumori. Sembrò passare un giorno, una settimana, un mese, un anno, un’epoca, senza che me ne accorgessi: quanta varietà e ricchezza in quel regno! Tutti erano fedeli al re: dall’incosciente zoticone all’impavido cavaliere, dalla guardiana di oche alla dama reclusa in una delle torri, ciascuno con il suo compito, seguendo il graduale ciclo delle stagioni, conduceva vita degna di un uomo e di una donna. Il sole tramonta, come la dinastia, e nel trambusto della vivace corte qualcuno tradisce, qualcuno vende il suo popolo ad uno straniero: un impostore. Al grido di orrore segue il lamento della morte violenta, il corpo del re colora le scale di sangue mentre dall’alto gli occhi grigi degli avvoltoi in armatura attendono di depredare il suo oro. Improvviso boato assordante, il buio pesto. Un lampo di luce illumina il cielo dopo un’attesa lunga e terrificante: è morto il nostro re, Dio della terra! Dunque la morte di Cesare, e poi di Gesù, non è stata mai realmente riscattata! Folle fui a credere nell’armonia delle regole, a sperare che la vita del re fosse eterna come quella di un dio, che la giustizia non fosse stata sempre una mostruosa chimera…HaaAhhh!!! Sobbalzo dal letto e poi ricado con il peso del piombo. Il tradimento, l’avarizia, l’ignavia, tutti i mali che portarono alla morte del regno e della vita sulla terra nei secoli, si cominciarono ad impossessare della mia mente e, trafiggendomi con lama di fuoco, mi costrinsero alla visione della malvagità della storia umana dal suo principio e…Mentre il sole si allontanava, come in una sorta di cataclisma, dalla mia galassia i pianeti iniziarono a muoversi sempre più scoordinati, il sistema era perduto. Dal letto alzai le braccia verso l’alto, le pupille restarono impietrite e una ventata gelida mosse per un attimo i miei capelli. Il castello angioino-aragonese tornò un rudere silenzioso, la costruzione di pietra decadente con le sue grandi finestre vuote che si affacciavano sul cielo: la cartolina che gli occhi (anche quelli non troppo aperti) della gente fotografano dalla spiaggia di San Marco.

Rachele Siniscalchi Montereale

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