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Lo scritto tra le righe

UNA VITA DA RACCONTARE

Nel leggere il libro “I monti di sopra” di Carlo Parente, si ha la sensazione di intraprendere un viaggio in quei vecchi treni di una volta. Sei comodamente seduto nella tua poltrona e inizi pian piano a muoverti, senti il rumore delle rotaie e dal finestrino vedi le prime immagini, dapprima lentamente e poi vi è il susseguirsi veloce di emozioni, colpi di scena, imprevisti che ti fanno sentire a volte partecipe, quasi interprete principale, altre semplice osservatore impotente all’evolversi della storia. La ricostruzione della vita di Paolo, il protagonista del libro, è un concentrato di tante memorie fuse insieme, davvero una storia degna di esser raccontata e letta. Lo scrittore Carlo Parente, pediatra di Benevento, ha già scritto delle sillogi poetiche, ma questo rappresenta il suo primo romanzo, e nel sentirlo parlare si percepisce subito l’amore per questo neonato letterario, la cui lunga gestazione lo porta oggi ad un accudimento quasi paterno di questa storia custodita negli anni. Storia vera quella di “I monti di sopra”, in cui il medico-scrittore racconta con minuziosa solerzia la vita di un caro amico, che per la sua complessa bellezza ha pensato bene di trascrivere negli anni per evitare che andasse perduta. Una vita travagliata quella del protagonista, dalla sua nascita agli anni trascorsi nel collegio come orfano, per scoprire, infine, che quella pesante etichetta che si portava addosso era semplicemente un falso per nascondere dolori, incapacità genitoriali, avventure e misteri che coprivano la storia della sua famiglia e che, tassello dopo tassello, Paolo ricostruisce da solo. Alcuni episodi sono così ricchi di patos che nel leggerli si ha la sensazione di sentirli sulla propria pelle, come le vacanze natalizie in collegio: “Li osservavo allontanarsi festosi dal portone grigio che si richiudeva alle proprie spalle, lasciando me e pochi altri in un deserto affettivo. Li seguivo con lo sguardo fino a vederli scomparire all’orizzonte…”. Con l’improvvisa ricomparsa della madre, di cui ignorava l’esistenza, Paolo inizia una nuova vita, con la stessa madre assente prima ed ugualmente dopo, una vita diversa, ma non ‘colma’ come avrebbe sperato. Paolo si interroga su quello che sarebbe stata la sua vita se vissuta diversamente, ma poi accetta il divenire quasi ‘congelato’. Quel suo essere mite, forse, non era altro che un modo per difendersi da altri dolori o semplicemente accettava, come aveva sempre fatto, il nuovo senza avere aspettative particolari, senza alcuna pretesa. “Una vita in bilico, sul precipizio, nell’attesa di volare. Una vita di solitudine, di scelte sbagliate, o forse di scelte che, a ripensarci, non possono essere considerate tali. Non avevo voluto o non avevo potuto scegliere?”. Una mancanza di fondo che lo accompagnerà a sua insaputa per tutta la vita. Decisioni sbagliate, proprie o subite, che avevano deciso la direzione del suo vivere quotidiano, indirizzandolo verso mete che non avrebbe mai immaginato e adesso come una foglia portata dal vento si lasciava trasportare. Il libro inizia e termina con una frase “quanto durerà il giorno prima di morire”, una frase di grande speranza nel futuro, seppur breve… ma lascio ai lettori decidere, se aggiungere alla fine di quell’ultima parola un punto esclamativo o interrogativo.

Laura Russo

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