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“COME UN OMBRELLO TESO TRA LA TERRA E IL CIELO”

Recensione del racconto “Un dramma” del Premio Nobel Grazia Deledda, nel mese del 150esimo anniversario dalla sua nascita.

La prima volta che ho letto questo racconto di Grazia Deledda (nata a Nuoro il 27 settembre 1871; insignita del Premio Nobel per la letteratura nel 1926) dal titolo “Un Dramma”, che consta di appena 9 pagine, ho avuto letteralmente i brividi. Un racconto breve ma intenso, come un pugno nello stomaco che ci costringe a destarci e a fare i conti con la faccia ruvida della realtà, che è la faccia ruvida di una donna di un paesino del Sud non ben identificato – ma quasi certamente della Sardegna, essendo sarda l’autrice; un volto, quello della protagonista, anch’esso non identificabile, in quanto sta per compiere il più rivoluzionario dei gesti che una donna dei primi anni del Novecento potesse compiere: girarsi verso l’ignoto e andare via di casa. Le donne di Grazia Deledda sono donne che si consumano nel silenzio di uno strazio paradossale e senza tempo, il loro essere schiave nelle abitazioni di cui sono padrone. Donne la cui presenza viene data per scontata tra le mura del focolare e la cui assenza è un concetto neanche lontanamente ammissibile come possibilità immanente nella forza delle cose. Sicché, quando questo realmente accade, arreca scompiglio, rabbia e sgomento nell’esistenza delle figure maschili che subiscono l’abbandono. Non perché le amino, ma perché amano la funzione vitale che le donne incarnano, in quanto venute al mondo per mettere al mondo; e soprattutto si adagiano sulle sovrastrutture arretrate di una cultura patriarcale che si ostina a inquadrarle esclusivamente nel ruolo “rassicurante” di madre balia e di moglie ubbidente. Più sono innocue e meno sono pericolose, per il sistema. Ma, seppur intrappolate in un ruolo, seppur disilluse e sottostimate, è forte in queste donne l’impeto della rivolta. L’autrice le descrive “stanche, stanche di lavorare inutilmente e di combattere contro tutte le piccole divoranti avversità dei giorni attuali, senza mai riuscire a rendere, se non contenti e ammirati, quantomeno tranquilli, il marito e i figli”. Ma questa stanchezza altro non è che un eccesso di lucidità: è la presa di coscienza, da parte della donna, delle perpetrazioni ingiustamente subite e delle vie idealmente percorribili per sottrarvisi senza rinunciare alla propria natura di donna, di madre e di moglie. Di qui il titolo “Il Dramma”. Il dramma è l’impossibilità di far valere i propri diritti e i propri meriti. È la tensione tra ciò che queste donne sono e ciò che vorrebbero essere. È l’incapacità di comunicare che si traduce nel gesto estremo dell’abbandono del focolare domestico e degli affetti familiari. Ma ciò che più sconvolge di questo racconto è il finale: inavvertitamente, quando tutte le speranze sembrano perdute, la donna fa ritorno a casa e per maggior conforto porta con sé un cestino di frutta da destinare alla sua famiglia. Tutto torna alla normalità. Questa fuga non è reale: l’abbiamo solo sognata. Gli uomini di casa torneranno a fare gli uomini. E i padroni. Le donne torneranno a essere presenze docili e rassicuranti. Perché è di questo che parliamo, miei cari lettori: di donne “presenza” e non di persone. Anzi, di donne la cui assenza fa più rumore della loro presenza. La loro presenza ingenera fastidio e derisione; le donne diventano capro espiatorio di ogni frustrazione degli uomini di casa. È nell’assenza della protagonista, invece, che il marito e il figlio cominciano a capire le ragioni della fuga (vera o presunta che sia), a percepire il disagio che alberga nel suo cuore, nello scoprirsi impotenti nell’adempiere le più banali incombenze domestiche, s’insinua e s’accende, come un fulmine a ciel sereno, il barlume di un senso di colpa, che ciascuno dei due personaggi maschili vive rinchiuso nella sua solitudine e non ha il coraggio di confessare all’altro. “Oramai è fatta”, dice a un certo punto il padre al figlio. Quasi a voler significare “è così che deve andare: la natura ci ha fatti uomini. Dominatori. E pur capendo perché lei se ne è andata, non avremmo potuto comportarci diversamente”. È il tema della predestinazione e della ineluttabilità del proprio destino, che caratterizza tutta la produzione letteraria di Grazia Deledda. Ed è il tema dell’emancipazione femminile che, nell’attimo stesso in cui c’illude di aver spiegato le ali, sorretta da uno slancio d’amore universale, in cui la storia di una sola diventa la storia di tutte, ecco che rimane impigliata nelle maglie delle convenzioni sociali. “Come un ombrello teso tra la terra e il cielo”, volendo citare una nota canzone di De Gregori.

Milena Cicatiello

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