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Il cinema ritrovato

INSIDE THE ACTORS STUDIO

In questo numero della nostra consueta rubrica parleremo degli attori. Vero, ne abbiamo trattati molti, alternandoli a scritti su stili cinematografici, registi, premi, serie TV e quant’altro sia di risulta sul grande schermo. Stavolta però analizzeremo gli attori in generale, le varie scuole di pensiero e le diverse tipologie partendo dai metodi di lavoro, quelli, per intenderci, che danno agli attori stessi gli strumenti per la recitazione. Strumenti che, inevitabilmente, variano per nazionalità, cultura ed esigenze cinematografiche del contesto. In breve, la formazione di un attore italiano non potrà mai essere in linea o sovrapponibile ad un attore francese o scandinavo, fino ad arrivare all’inarrivabile, ovvero gli attori americani. Gli attori americani di un tempo, quelli del bianco e nero e degli anni ‘50 e ‘60, avevano un modo di recitare quasi stucchevole rapportato alle mimiche e alle dinamiche di oggi. Non c’era il cambiamento fisico da un film all’altro, il personaggio variava di poco. Per intenderci, i vari Clarke Gable, James Stewart, lo stesso Cary Grant, e altri come loro, erano quelli e basta. Non ti aspettavi uno di questi che magari metteva su 30 chili per recitare in un film e poi si presentavano palestrati nell’altro, coi capelli lunghi. La mimica facciale era spartana, minimale, così come i movimenti del corpo. Tutto è cambiato con Lee Strasberg che riprendeva e perfezionava i principi del cosiddetto metodo Stanislavskij. La nascita dell’Actors Studio. Stanislavskij, come principio, sosteneva delle tecniche di rilassamento muscolare per arrivare allo sviluppo dell’espressività fisica, della voce coerente con le esigenze del personaggio in una determinata scena. Scavare a livello interiore per ricercare emozioni vissute, riversate poi nella contingenza della situazione rappresentata. Se l’attore non sente dentro di sé il personaggio, la recitazione risulterà forzata e non credibile. In linea generale era questo, ovviamente riassunto in maniera approssimativa. Lee Strasberg, come detto, ricalca questi principi adattandoli però allo show business americano, che aveva e ha richieste specifiche per il suo mercato. Ed ecco i vari De Niro grasso in Angel Heart e palestrato in Cape Fear, Tom Hanks che mette su 50 kili per poi sospendere le riprese di Cast Away per un anno e ripresentarsi scheletrico, lo stesso Brad Pitt, icona del bello, divenuto, per espressa richiesta dell’attore, bruttissimo (e bravissimo) in L’esercito delle 12 scimmie, e così tanti altri. Le facce di gomma di Kevin Spacey, che danno un’espressività senza bisogno della battuta (esempio faccia che cambia in maniera impercettibile ma devastante nella scena dell’interrogatorio ne I soliti sospetti), lo sguardo cosiddetto “basso” di Al Pacino, che gli valse la parte ne Il Padrino, l’espressione di Benicio del Toro nei primi piani. Ecco, questi sono tutti esempi di come sia cambiato il ruolo, negli anni, e di come fare l’attore sia un percorso non esente da sacrifici fisici e mentali. Oggi più di ieri. Le leggende narrano di attori che rimangono imprigionati o addirittura traumatizzati dai personaggi che interpretano. Penso a Daniel Day Lewis, attore formidabile, letteralmente consumato dalle sue interpretazioni, profonde, estreme, talmente sfiancanti da portarlo ad abbandonare le scene. Il personaggio che supplica l’attore di farlo emergere attraverso le sue emozioni. Ti consuma. Questo è l’attore americano. Diverso il discorso per l’attore italiano. La formazione dei grandi del passato è soprattutto teatrale, venivano tutti da lì. Penso a Totò, a Peppino, a Gassman, a De Sica e tanti altri, l’impostazione era quella e si vedeva chiaramente in scena. Detto che i vari Tognazzi (soprattutto) o Moschin o Gassman o Mastroianni (di meno) avevano talento a strafottere, e quindi ogni discorso per loro appare molto relativo, ma la recitazione data dalle esigenze del nostro cinema erano e sono totalmente diverse da quello americano. Se messe insieme, risultano evidenti e stridono fortemente. Un attore italiano che recita in un film con attori americani lo noti subito perché appare totalmente fuori contesto. Se ti imbatti in un film tipo The Tourist, una boiata clamorosa a prescindere, ma coeva al discorso che stavo facendo. Ambientazione Venezia. Vedi Johnny Depp e Angelina Jolie e altri personaggi di contorno interagire (per fortuna sono solo comparsate) con gli attori italiani, e capisci perché siamo decaduti così in basso. Roba da rovinare un film già rovinato di suo. Pur pronunciando solo sillabe, stonano e non poco. Gli attori francesi, e chiudo con gli esempi, sono diversi e perfettamente calati nelle loro radici col retrogusto dei grandi registi del passato che hanno fatto scuola. La loro recitazione è minimal perché così vuole il loro modo di fare cinema. I dialoghi sincopati e spesso lasciati lì, senza senso, sono perfetti per quelle facce e per quelle mimiche impercettibili, a volte totalmente assenti. A volte, vedere il finale di un film francese ti lascia interdetto, perché non puoi credere che finisca così, senza una conclusione chiara. Ma il bello è proprio quello.

Carlo Marrazza

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