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Il salto della quaglia

GHALI CONTRO IL SILENZIO

Ghali contro il silenzio dei “finti attivisti affamati di fama”.

Ho letto con piacere le dichiarazioni di Ghali, datate 10 marzo, dove ammette la delusione per il disinteresse dei suoi colleghi, artisti e personaggi famosi vari, per le questioni che ci ruotano intorno, che ci riguardano in quanto umani, nel senso biologico del termine considerato che quello etico sembra essersi smarrito da tempo. La critica del cantante, che poi tanto polemica non è, ma trattasi di una semplice osservazione, è che da quando tra Israele e Palestina è scoppiato il conflitto e quest’ultimo, ben presto, si è trasformato in massacro (quale guerra in fondo non lo è), tutti quelli che in passato si erano immolati per questa o quella causa, con tanto di post, stories e annunci vari, sono rimasti in silenzio, cito testualmente “piegati dalla paura di essere tagliati fuori da qualcosa”. Da cosa? Beh, quello è facile: dai soldi, dai like e dai followers, dalle collaborazioni, dal pericolo, parafraso ancora il rapper, di non essere più cool e alla moda. Sia chiaro, a me l’aggettivo “impegnato” che accompagna gli artisti piace poco, soprattutto quelli attuali, che poco hanno da spartire, salvo alcune eccezioni, sul fronte diritti rispetto a scrittori e cantautori di qualche decennio fa. Tante volte è un pretesto, infatti, quello dell’impegno, che nasconde i limiti formali dietro il significato, come se la bellezza di un verso per scelta lessicale e retorica valesse meno del contenuto, soprattutto quando questo, buttato lì a caso, senza convinzione e approfondimento, ipocritamente ci fa sentire tutti più giusti e coscienziosi. A me Ghali piace, perché è tra i pochi che sa unire significante e significato, perché le cose che canta sa cantarle, perché non cede alle banalità, perché quando vuole essere impegnato lo fa prima da uomo e poi da artista, a differenza di altri, di tanti, di quelle persone e personalità che neanche lui immaginava “sarebbero rimaste in silenzio di fronte al genocidio in Palestina”. Perciò, quando al dopo Festival ha detto di fermarlo il genocidio, senza tirare in ballo nessuno, se non la crudeltà, qualcuno si è sentito tirato in causa, qualcun altro, invece, ha chiesto di non essere messo in difficoltà, di parlare di canzoni, soltanto di canzoni. E va anche bene che l’arte parli d’arte, il problema è quando gli uomini non parlano di altri uomini e donne e bambini che continuano brutalmente a essere uccisi. Però, si sa, anche l’etica ha un prezzo e certi artisti, a quanto sembra, non sono da meno. Chissà, forse un giorno sapranno darsi anche un valore.

Pasquale Quaglia

Leggi  QUI  la copia digitale de Il Commendatore Magazine.

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