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Recensione del libro “Fermate la produzione – diario di un arboricolo” di Giovanni Peli.

L’arboricolo: è un uomo del passato, del presente o del futuro? Questo non è un dato importante. L’arboricolo è l’uomo. È l’uomo alla ricerca della sua identità, alla ricerca della sua essenza. Alla ricerca del suo vivere, indipendentemente da quello che è il mondo e la piega che esso vorrà prendere, in base ai dettami di una società in perenne evoluzione. Un’evoluzione che, talvolta, pur volendo volgere al positivo, alla risoluzione di problemi atavici, quali, per esempio, quello dell’inquinamento, invece, senza che in molti se ne accorgano, conduce alla fine. Alla distruzione dell’umanità.  Un’umanità relegata al ruolo meccanico di oggetto misterioso, che barcolla a stento per uno scopo materiale, mentre perde, a poco a poco, la sua essenza spirituale. Tenuta insieme da tubi metallici, alimentata in maniera sintetica dall’Etere, ovvero da ciò che l’uomo ha creato come dominio esogeno a se stesso; forse, nella sua naturale inclinazione all’autodistruzione, mentre tenta, ossessivamente, di superarsi. L’arboricolo è colui che, senza volerlo, riesce a comprendere fino in fondo questo meccanismo, o meglio, riesce a concepirlo come non idoneo alla sua essenza e alla sua storia. Alla sua smania di voler continuare a essere, molto semplicemente, uomo. Ovvero uomo-animale, proteso a vivere a contatto con la natura, in maniera estremamente semplice, a contatto con un albero, a contatto con il cielo e con la Terra. Calpestare al mattino, a piedi nudi, quell’erba rigogliosa, gli fa sentire la presenza del mondo. La speranza di un futuro ancora possibile. Egli rifiuta ogni contatto con quei tubi, prova pietà per coloro che ne rimangono avvinghiati, e cercherà di portarli via, ma senza essere un rivoluzionario: la rivoluzione non è per l’uomo. L’uomo è fatto di evoluzione, un’evoluzione che però, talvolta, può spingerlo verso qualcosa che lo allontana da se stesso. L’arboricolo tenta di ricondurre l’evoluzione al sè. All’essere. Ci riuscirà? La strada è tortuosa, richiede di lottare contro se stessi. E contro un mondo che, come ogni altro mondo, ci impone le sue convenzioni per poter entrare a far parte di quella macro-famiglia che è la società e che ci obbliga a sottostare a delle regole, promettendoci, in cambio, qualcosa che viene declamato come “unicum” per poterci salvare. In nome di un bene comune che invece si è disperso, non ha più significato. Cos’è il bene? Dov’è il bene? Quando arriverà il bene? Forse arriverà quando un arboricolo, uno solo, riuscirà a contaminarne altri, riuscirà a popolare quell’albero, riuscirà a staccare, anche attraverso il suo malcontento, altri esseri da quei tubi, a portarli via dalla realtà virtuale che ha sostituito il vivere. È una critica molto lucida all’oggi, ai social illusori del web, alla vita asociale spacciata per sociale, a quei like che ci fanno sentire piena la nostra vita mentre invece si svuota di ogni sua realtà. A quegli acquisti via web che ci fanno sentire ricchi e ci distolgono dalla povertà che dilaga intorno a noi. E siamo poveri di passeggiate, poveri di vetrine accese di notte per andare a cercare l’articolo di giorno, poveri di un contatto umano con quel commesso a cui potremmo chiedere consiglio sul colore di una camicia. Poveri nel cercare il resto, nel cambiare una banconota. Poveri di quelle cose (semplicemente cose!) transitorie, passeggere, inutili, ma che servono a farci sentire vivi. E ad alimentarci con quelle sostanze che la natura ci offre, quei frutti che una volta vedevamo sbocciare dai nostri alberi, che potevamo mangiare gustandoli acerbi, ovvero a un grado di maturità che era quello che noi sceglievamo, e non a quello a cui si conformano i direttori dei supermercati. Legati a delle catene mostruose, che oramai confondono il naturale con il sintetico, spacciandocelo per biologico. Senza che di “logico” ci sia più nulla. E forse neanche di “bio”, perché di bio non c’è più neanche una vita, se legata così al Mostro che ci sta calpestando. E che noi abbiamo creato, come ogni altro Golem. Questo però – attenzione – non vive dentro di noi. Questa volta vive fuori. Ed è più difficile da combattere. Dovremmo forse rifugiarci sugli alberi?

Milena Cicatiello 

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