I Negramaro lanciano il loro nuovo disco, la parola chiave è “Contatto”, la parola più usata in questo anno 2020: non possiamo stare in contatto ma abbiamo bisogno di un contatto umano, sociale, affettivo e siamo costretti a fidarci solo di quello virtuale, filtrato da un schermo. Giuliano, il cantante, parla della pandemia come di un imbuto in cui devono passare tutte le nostre sensibilità. Anche le nostre certezze, direi. L’attualità ci mostra la strettoia dell’incertezza, la sofferenza e la morte. Non solo la malattia ma il grido della vita negata, dei popoli oppressi da guerre fratricide etniche per il potere delle masse, abbandonati a se stessi nella follia terrorista; del pianeta snaturato e sporcato da un oceano di spazzatura, un tam tam a livello mondiale. Camminiamo con i piedi sulla terra ma non volgiamo quasi mai lo sguardo verso il cielo, passando dal materialismo al trascendente. Non volgiamo quasi mai lo sguardo al centro della vita che è in noi, la scintilla divina, eterna, l’anima. Una piantina spirituale che stiamo soffocando. La pandemia che stiamo attraversando, come i numerosi periodi storici critici del passato per le nostre civiltà, ci capovolge. Ci costringe con i piedi attaccati al cielo e lo sguardo sulla terra, a guardare come abbiamo ridotto la terra, come siamo dipendenti dalle dipendenze. Come ci sovrasta l’illusione della marcia del progresso e della scienza, del potere nelle mani di un singolo personaggio! Spinti da chi, come un gigante Mangiafuoco, l’anima ce la vuole rubare, facendoci tenere lo sguardo basso su un oggetto del desiderio. Incapaci di vedere con gli occhi del cuore, di ascoltare col cuore, ciò che l’anima chiede urgentemente. Ed è proprio l’illusione che ci spaventa, che ci mette in atteggiamento di difesa, di estraneità, lasciando che il nostro ego e la nostra rabbia ci sovrastino, sconfinando nell’odio e nell’irragionevolezza o peggio nell’indifferenza e nel vuoto abissale. Come uscirne, da quale certezza lasciarsi guidare ed ispirare? Una traccia ce l’avevano lasciata i nostri nonni, quelli che vivevano una vita pastorale e contadina. La semplicità del bene, dell’affidarsi a Dio nel quotidiano di piccole vite preziose, mani e schiene consumate dai lavori per trasformare i semi in frutti, il quotidiano nelle famiglie, lo scambio dei prodotti. Il nemico non è solo fuori di noi, nell’altro, ma è soprattutto in noi che non abbiamo più lo sguardo limpido, non siamo noi che non possiamo fidarci dell’altro ma è l’altro che non sa se può fidarsi di me. Dobbiamo lavorare sulla mitezza, sull’autenticità di una personalità matura, esperta, generosa, libera, non negoziabile agli interessi ipocriti del denaro. Perché, lo vogliamo o no, siamo diretti verso un futuro a cui Dio ci chiama, che lo comprendiamo o no. Il nostro futuro è ciò a cui la nostra anima aspira, ogni giorno, miei cari. Quell’eternità a cui Dio ci chiama, per cui è stata predisposta lungo la storia, fino ai nostri giorni, la traccia della Rivelazione di Dio che dialoga con l’umanità, lì nell’anima che vuole mettersi in ascolto. Una vita, quella dell’umanità intera, la cui speranza ultima e potente è quella che cantiamo con Roby Facchinetti e Stefano d’Orazio: “Rinascerai, rinascerai … abbracciati da cieli grandi torneremo a fidarci di Dio”. Perché dobbiamo dirci la verità fino in fondo: l’amore ha un nome, Spirito Santo. Gesù è sceso dal “cielo che è blu sopra le nuvole” per donarcelo, perché noi portassimo frutti buoni e generosi. Perché siamo guidati da angeli buoni ma anche ingannati da angeli ribelli, i quali combattono per non farci sentire tutto l’amore che Dio ha per le sue creature. Allora, come i nostri nonni, attraverseremo ogni tempesta, confidando e tornando ogni giorno ad alzare gli occhi al cielo, per essere persone migliori. Recuperando dal passato tutto ciò che i nostri nonni hanno cercato di trasferirci, senza saper leggere e scrivere bene. L’amore per la vita, per il proprio lavoro, per i bambini e i figli, per il sacrificio e le sofferenze che riempiono gli occhi di lacrime. Forse qualche nipote vuole raccontarci ciò che ha ascoltato dai nonni, qui nella nostra terra, cosa gli manca di più di quel passato vissuto sulla sua pelle?
Maria Donatina De Rinaldis