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IL DIRITTO ALL’EUTANASIA – LIBERTÀ DI MORIRE E SUICIDIO ASSISTITO

Il diritto all’eutanasia si esplica nella libertà di ogni individuo che sia affetto da una malattia terminale di scegliere liberamente se continuare a vivere o, se rifiutasse il prolungamento del trattamento di cura, di essere aiutato a morire tramite il suicidio assistito. In verità, il diritto all’eutanasia va inteso anche quale libertà della persona di scegliere di porre fine alle proprie sofferenze e, in termini di qualità della vita, quale libertà di scegliere di non voler condurre una vita non dignitosa. Purtroppo, c’è da dire che ad oggi non sussiste una linea univoca sull’argomento: c’è chi ritiene che il diritto all’eutanasia sia a tutti gli effetti un diritto giuridicamente riconosciuto e pienamente rientrante nella sfera personale di ogni singolo individuo; c’è chi, invece, sostiene che questa sia una facoltà che possa essere riconosciuta al singolo individuo, ma solo ed esclusivamente nel caso in cui dovessero sussistere determinate condizioni di salute che impediscono al malato di vivere una vita normale e dignitosa; e poi, infine, ci sono i religiosi, i quali negano del tutto l’esistenza di questo diritto, dal momento che la morte può sopraggiungere solo se voluta da Dio.

Perché il diritto all’eutanasia rappresenta una questione così spinosa?

Innanzitutto, bisogna partire dal dato normativo: per lungo tempo, il legislatore non ha fornito alcuna definizione legislativa del diritto all’eutanasia. Né tantomeno è stata fornita una esplicazione sul concetto di “accanimento terapeutico”, il quale, ancora oggi, è rimesso alla valutazione discrezionale del singolo medico, in base alla quale possa essere consentito o meno ricorrere al suicidio, nonostante la volontà espressa del singolo paziente. Ed è stata proprio a causa di questa profonda e ingiustificabile lacuna legislativa che sono stati innumerevoli i casi nei quali è dovuta intervenire la giurisprudenza. Procedendo a ritroso, potremmo partire dal caso di Eluana Englaro, primo caso in cui si è discusso di eutanasia, nel quale la ragazza, vittima di un incidente stradale, non era nelle condizioni psichiche idonee per manifestare la propria volontà di interrompere le cure “salva-vita” e solo grazie ad una lunga lotta intrapresa dal padre, il quale fu nominato amministratore di sostegno, il Tribunale di Lecco decise di autorizzare l’eutanasia. Segue, poi, il caso di Piergiorgio Welby, il quale, anche lui trovandosi in una situazione clinica di irreversibilità, chiedeva in prima persona, manifestando espressamente la propria volontà, di porre fine alle proprie sofferenze. C’è stato il caso tragico del giovanissimo dj Fabio Antoniani, nel quale questo ragazzo si trovava in una situazione clinica particolarmente delicata, per il fatto che fisicamente non era più in grado di muoversi, ma psichicamente aveva conservato la propria lucidità mentale da consentirgli di manifestare la propria libertà di sottoporsi al suicidio. A suo sostegno, intervenne Marco Cappato, il quale lo condusse in Svizzera e permise a Fabio Antoniani di “staccare la spina”. Infine, c’è stato il caso più recente di Mario, il quale, immobilizzato da 10 anni, ha chiesto e alla fine ottenuto dal Comitato etico dell’Azienda Sanitaria Unica Regionale delle Marche il parere con il quale è stato confermato che Mario possiede i requisiti per l’accesso legale al suicidio assistito.

Come il caso di Dj Fabo Antoniani ha inciso sullo “status” normativo?

Il caso di Dj Fabo Antoniani ha costituito un vero e proprio impulso, un caso di impatto particolarmente rilevante da indurre il legislatore ad intervenire. La causa scatenante di questa iniziativa legislativa è stato il fatto che Marco Cappato, una volta tornato in Italia, fu processato per il reato di istigazione al suicidio. Ovviamente, era piuttosto evidente che non si poteva configurare un reato di tal genere. Questo per due motivi: il primo è che, nel caso di specie, fu lo stesso Dj Fabio Antoniani a manifestare la propria volontà di ricorrere al suicidio; il secondo è che non fu Marco Cappato ad eseguire “materialmente” la procedura di interruzione della propria vita, ma fu lo stesso Antoniani. Dinanzi all’ennesima inerzia e inattività del legislatore, la Corte Costituzionale è dovuta intervenire e ha stabilito infatti l’illegittimità costituzionale della norma (art.580 c.p.) In sintesi, la Corte, con una sentenza storica, ha sancito che non può essere punito chi, semplicemente, aiuta una persona affetta da una patologia terminale che ha manifestato in maniera libera e non condizionata la propria volontà di ricorrere al suicidio assistito. Esattamente com’era accaduto nel caso di Marco Cappato.

Ma ad oggi esiste in Italia una forma legale di suicidio assistito?

La risposta è sì. Di sicuro, grazie al caso di Fabio Antoniani, è stato possibile riconoscere legalmente la possibilità a coloro che si trovino in uno stato di irreversibilità, di poter ricorrere all’eutanasia e all’interruzione volontaria dei trattamenti sanitari. Requisito imprescindibile richiesto è il consenso informato del paziente e questo, ovviamente, va visto nell’ottica della libertà di autodeterminazione del singolo individuo. Inoltre, è entrata in vigore solo nel 2018 la legge che disciplina il cd. testamento biologico, strumento a mezzo del quale chiunque può disporre del proprio corpo in maniera anticipata, e cioè nel caso in cui si dovesse perdere in modo permanente la propria capacità di intendere e di volere. Ovviamente, tra i vari requisiti sono richiesti: il consenso informato del paziente, stato di irreversibilità, il verificarsi di una forma di accanimento terapeutico, la libertà dello stesso di revocare il proprio consenso in ogni momento.

Valentina Cicatiello

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