È indubbiamente tra i più interessanti cantautori della sua generazione. Testi pensati che inducono a riflettere con lucida leggerezza per toccare argomenti dalla profondità immisurabile. Musiche caratterizzate dal fascino sapiente delle radici, della contaminazione e di una cultura musicale di alto profilo che non suona mai pretestuosa né saccente. Il trionfo di un’acustica contemporanea che si distingue con classe e potenza, espressa dalla sicurezza dei mezzi e dei contenuti. Tutto questo è Mico Argirò.
Partiamo da uno dei tuoi primissimi pezzi, dal titolo Bohémien, che adoro particolarmente, perché, sin dal primo ascolto, ho percepito l’ambivalenza del grande sogno della vita d’artista, che a tratti si scontra con il senso di inadeguatezza di chi non è in linea con le convenzioni sociali.
“In quella canzone c’è tutto il disagio dell’adolescenza e c’è tutto il mio desiderio di allora di una vita maledetta, di arte e musica. Quando oggi la suono nei live, nella versione elettronica che è tutta una produzione in diretta di loop, rivivo quelle sensazioni e poco importa se nel frattempo quella vita d’arte e di viaggi la sto vivendo. Ricordo che leggevo di tutto, i poeti maledetti, la beat generation, cavolo Kerouac, Baudelaire, Verlaine. Parte tutto da lì e si arriva a oggi”.
Il secondo pezzo che ho selezionato è “Vorrei che morissi d’arte”. Qui la prospettiva è completamente ribaltata. Non sei più il bohemien che vive ai margini della società, ma diventi inavvertitamente un guerriero con la spada, pronto a colpire il mondo per smascherarne l’ipocrisia e la povertà di sentimenti. Non sei più in pericolo ma sei tu stesso il pericolo, in un certo senso.
“Una bellissima interpretazione, soprattutto perché i due brani si legano strettamente. Vorrei che morissi d’arte vede l’arte come strumento di offesa, come, appunto, una spada attraverso la quale ferire un mondo distratto, distante, freddo e insensibile. Ho sempre pensato che le arti abbiano un ruolo centrale nella società, l’idea di musica come solo intrattenimento o come artisti che non si schierano mai per non perdere 5 follower mi repelle e mi sconcerta. Chiaramente non parlo di uno schieramento politico, almeno non come lo si intende oggi, forse più aristotelicamente ritengo che ogni azione umana sia politica e quindi anche l’arte”.
Un altro pezzo che ben definisce la tua evoluzione artistica è “Il polacco”, che considero un’autentica prova di impegno civile e nel contempo un originalissimo spaccato di vita in cui l’io artista si misura con gli ultimi della società. Asfalto amaro di via, è lì che si ritrovano tanto gli artisti quanto gli emarginati.
“Collegandomi anche a quello che stavo dicendo prima, canzoni come Il Polacco, Figlio di nessuno, Hijab, sono strettamente calate nel ruolo sociale dell’arte, almeno secondo me, perché quando racconti storie di persone al di fuori dei canoni della normalità stai di fatto combattendo le battaglie delle minoranze, minoranze delle quali mi ritengo di fare parte. Certo, quando scrivi questi pezzi non pensi al ruolo sociale, ma ti limiti a raccontare quello che ti piace e ti affascina, quello che ti suggestiona, e io sono fortemente affascinato da queste storie, da questi altri mondi coesistenti al mio”.
Concludiamo l’intervista con qualche considerazione sul tuo ultimo brano, “Lambrooklyn” con il quale ci insegni che a volte il nemico si nasconde in una tua canzone.
“O almeno così vogliono farci credere. Lambrooklyn è una canzone che nasce nel periodo delle zone rosse, quando evadevo il coprifuoco e passeggiavo per Milano. È fondamentalmente una canzone d’amore e nostalgia, per la distanza forzata. In questo pezzo raccolgo tutte le mie sensazioni di quei giorni, i desideri, i paradossi, le critiche. Sono felice che molti si siano rivisti in quello che ho raccontato, nel mio percorso personale e mentale”.
Milena Cicatiello
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