Fotogramma estratto dal film “Deserto Rosso”, 1964, regia di Michelangelo Antonioni (Film 2000, Roma).
Monica si muove, parla, si siede, mangia, discute, polemizza, cammina ed è subito spettacolo: non nel senso della funzione recitativa “ruolo fisso”, quanto nel significato antico della parola spettacolo, e cioè confessione e insieme rito, terapia e purificazione. Ecco, Monica era proprio così: metà “ragazza con la pistola” metà “deserto rosso”. Aveva cominciato guardando l’Accademia nazionale d’arte drammatica dal di fuori, studiava lì vicino e passando le era capitato di imbattersi in questa villa circondata da un cancello di ferro, oltre il quale c’erano ragazzi che strillavano, piangevano, ridevano, si buttavano per terra. Avrebbe dichiarato, molti anni dopo, giunta oramai all’apice del successo, in una delle sue più note interviste rilasciate alla RAI “Sembravano dei matti, ma erano felici. E così volli provare anche io a sentirmi libera, ritrovarmi in un’area protetta e familiare, lontana dal mondo fino ad allora conosciuto, in quel cancello che è dentro ma è fuori dalla vita. Mai mi sono sentita a mio agio come sul palcoscenico”. Eppure, sin dal suo esordio in teatro, Monica scopri quanto fosse difficile la vita di un attore, l’avere i riflettori perennemente puntati addosso, il non avere un posto in cui ripararsi. I suoi mali esistenziali si materializzarono agli occhi degli spettatori già nelle primissime apparizioni da palcoscenico e parlavano un linguaggio nuovo, unico e universale allo stesso tempo, come se tutte le voci di madre andate perdute si ritrovassero e confluissero, magicamente, nella sua. E così Monica, precorritrice inconsapevole di quella che sarebbe stata, in un futuro non molto lontano, la sua ascesa nel cinema esistenzialista dei primi anni ‘60, incarnava un prototipo di attrice donna fuori da ogni schema, non solo per i tratti somatici, che non riflettevano gli standard dell’epoca – ampiamente compensati da un invidiabile e inimitabile carisma – ma soprattutto perché non ha mai davvero recitato; inscenava, piuttosto, la melanconica condizione di una hypocrites in senso classico, di una clown bisognosa del suo pubblico perché carica di angoscia e solitudine, dapprima maschera e poi man mano sempre più volto di angoscia e solitudine, nel non sentirsi compresa da una platea di presenze assenti, espressione di quella società borghese che le appariva sempre più ostile, estranea e arida di sentimenti. Monica aveva capito il paradosso tutto umano che scavava nella dignità del suo dolore, come fosse in cui sprofondano insondabili abissi: di quella platea, seppure cieca e sorda, non avrebbe mai potuto liberarsi, se non a costo di sacrificare il sogno di diventare attrice. Ma non permise mai ai suoi personaggi di “svendersi”. La fiamma della recitazione non la consumò, semmai la fece ardere più a lungo, al punto da non riuscire più a scindere la sua essenza dalla passione, nella composta disperazione con cui gridava al mondo: “La mia vita finisce con la fine della finzione”. E la finzione era un sogno divenuto realtà, un provino per il cinema superato brillantemente, una prova superba fatta di silenzi e sguardi perduti. L’espressione estraniante del nulla che tutto tace e tutto ha da raccontare. Il regista Michelangelo Antonioni la amò dal primo istante, in tutte le possibili accezioni che il termine amare può assumere. Da artista qual era, Antonioni vedeva alcuni suoi personaggi, come quelli di Vittoria o di Giuliana (poi impersonati dalla Vitti), con lo sguardo del pittore più che con quelli del regista. Prima ancora di incontrarla, e del tutto ignaro che ciò sarebbe accaduto, realizzava i suoi quadri ispirandosi a lei. Non la conobbe, la riconobbe, anni dopo, nel giorno dell’incontro, scorgendo nella donna l’incarnato giusto per quella sagoma senza volto che da tempo cercava di definire, disegnandola al centro delle sue scene come il compimento di una poesia per immagini, scritta con una telecamera in piano sequenza piuttosto che dalla penna e dalla punteggiatura. Antonioni trovò in lei una compagna nel mondo e, nel contempo, la sua voce di dentro. Non sono rari, nel cinema, questi incontri stimolanti tra un regista e un’attrice; un regista che costruisce un personaggio su un’attrice e un’attrice che riesce a suggerire, con la sua stessa presenza, personaggi. Ma questo legame esprimeva qualcosa di più profondo e duraturo. Si sarebbero cercati anche dopo essersi allontanati, negli anni della separazione, lei ricreando i personaggi di lui sul set di altri registi e lui ricreando lei nelle altre interpreti. La loro storia d’amore e la loro collaborazione professionale finirono nella vita reale, mai sullo schermo. Per molti anni Monica, malgrado la sua partecipazione a nuove e più popolari produzioni cinematografiche (vale la pena di menzionare la commedia all’italiana al fianco del regista e attore Alberto Sordi), continuò a incarnare, soprattutto agli occhi di se stessa, la Musa esistenzialista di Antonioni, così come era stata consacrata al grande pubblico dalla cosiddetta “trilogia dell’incomunicabilità” diretta dal talentuoso regista, i film “L’avventura”, “La notte” e “L’eclisse”, tutti girati in bianco e nero eppure afferenti a tematiche mai affrontate dal cinema italiano prima di allora, quale la crisi d’identità, l’alienazione borghese e il senso di smarrimento dell’uomo moderno al cospetto di una società sempre più corrotta e liquefatta. Tematiche di una certa modernità, che la Vitti indossava con la naturalezza di un abito che le era stato cucito addosso. Questi film, se in un primo momento suscitarono il riso o l’indifferenza delle masse, furono invece molto apprezzati dai più importanti registi dell’epoca e furono altresì premiati dalla critica. Soprattutto, lasciarono in Monica una traccia indelebile, che fu al tempo stesso il punto di partenza e quello di svolta di una carriera che, dopo Antonioni, avrebbe condotto all’insegna dell’ecletticità, della ricerca di una completezza artistica, della capacità di reinventarsi, del ritorno alla comicità sperimentata a teatro per trovare un canale di comunicazione fruibile e immediato, che le consentisse di fare ciò che più di ogni altra cosa, maledicendosi, desiderava: arrivare dritta al cuore delle persone. “Ho bisogno di sentirmi Antonioni e il suo opposto”. Che per lei avrebbe significato sfoggiare una nuova modernità, di cui fosse l’indossatrice ma anche il tessitore. La libertà di esprimere le sue moltitudini, senza mai rinnegare le sue origini.
Milena Cicatiello

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