Vengo da un paesino di collina del sub-appenino dauno, collocato nei pressi della valle attraversata del fiume Fortore. I paesaggi della mia infanzia sono campi verdeggianti tutto l’anno. Il clima che ricordo (chi scrive è stata infante a cavallo degli anni 2000) era caratterizzato da estati calde e secche (come è scritto in tutti i manuali di geografia quando si parla di clima mediterraneo), primavere e autunni piovosi, inverni freddi, a volte rigidi e nevosi. Qualche volta grandinava, ma non in modo violento e non “meteoriti”. Questa estate, per la prima volta da quando ne ho memoria, una sera di fine luglio la nostra montagna ha preso fuoco in più punti. Ad avvisarci sono stati l’odore di bruciato e il fumo che hanno inondato la valle e il paese, anzi i paesi (il fumo è arrivato fino ai paesi limitrofi). Che siano stati dolosi, colposi o spontanei, quella sera il vento era così forte e così caldo, che fermare gli incendi, per molte ore, è stato impossibile. Ore in cui tutto bruciava: campi secchi, sterpaglia, purtroppo anche qualche albero. La direzione del vento ha fortunatamente evitato che il fuoco arrivasse nella zona maggiormente boschiva, quella che gli abitanti del posto chiamano “Il Cantiere”, i vigili del fuoco hanno lavorato tutta la notte, impotenti perlopiù contro la forza delle fiamme che minacciano le vite, e così il mattino dopo il fuoco sembrava domato. Ma la zona ha continuato a fumare anche nei giorni successivi. Non era mai successo a mia memoria, e il fatto che sia successo ha in qualche modo rappresentato per chi scrive il segno tangibile di trovarci nel bel mezzo di una crisi climatica epocale. Le notizia di cronaca dall’Italia e dal mondo alimentano spiacevolmente e costantemente tale sensazione. Brucia l’Amazzonia, brucia la Sardegna, brucia la Calabria, brucia la Siberia. Confermato dall’organizzazione metereologica mondiale il record registrato l’11 agosto a Siracusa; 48,8 °C. Mai registrata, da quando ve ne è la possibilità tecnologica, una temperatura così alta in Europa. Alluvioni, esondazioni, bombe d’acqua, trombe d’aria, violente grandinate, uragani sono sempre più frequenti e più diffusi. E ad arginare quell’acqua non ci sono più nemmeno gli alberi, bruciati dal fuoco; la Terra sta franando e noi con lei. Trova quindi (in modo del tutto spiegabile) motivo di nascere e diffondersi un nuovo tipo di ansia chiamata ansia climatica o eco-ansia: angoscia, depressione, lutto anticipatorio, profonda frustrazione, senso di impotenza per un futuro segnato dal cambiamento climatico. Cosa dobbiamo fare? Dove lo dobbiamo trovare il coraggio di cambiare tutti, in maniera globale, il nostro stile di vita? A cosa sappiamo rinunciare? Ci preoccupa davvero tanto il futuro (anche se prossimo) o siamo troppo impegnati a godere dei momenti presenti? E poi: è sufficiente, ormai, cambiare le nostre vite, nel piccolo, con piccole accortezze, per limitare i danni? Quello che c’è da fare lo sappiamo, ce lo hanno detto scienziati ed esperti. Vogliamo? Vogliamo raggiungere a piedi i posti? Vogliamo rinunciare a prendere aerei e dunque a fare viaggi? Vogliamo rinunciare a mangiare il pesce? E le fragole a gennaio? Io viaggio sulla mia scopa, ma voi pensateci.
Enrica Colasanto
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