L’uso delle nuove forme di comunicazione, frutto del progresso tecnologico, pone, come ogni gesto della scienza, dubbi e perplessità di ordine etico. Non avremmo remore ad acconsentire alla creazione di centrali nucleari se la fissione di alcuni isotopi non ci rammentasse una grande paura – provata più volte e anche di recente dal genere umano – e mai del tutto alienabile, quella della nostra estinzione. Analogamente, riferendoci ad un altro piano morale e a tutt’altro campo, se guardiamo ai social network, di cui siamo attrici e attori, più o meno protagonisti, l’utilizzo e la diffusione di immagini, pone quesiti di tipo etico e giuridico. Delle responsabilità esistono, ma esiste anche un ingombrante vuoto normativo. Al di sotto dei 13 anni non ci si può iscrivere ai social, al di sotto dei 16 è necessario il consenso dei genitori. La diffusione delle immagini di minori da parte di terzi è tutelata dal diritto alla privacy garantito dai tutori legali di quei minori. Ma se a fare uso delle immagini dei minori sono proprio i tutori, nella maggioranza dei casi quindi i genitori? Ovviamente sono escluse dal discorso la diffusione e la detenzione di materiale pedopornografico che costituiscono in tutti i casi un reato penalmente perseguito. La condivisione, si diceva, attraverso i social, di immagini di minori da parte degli stessi genitori non è sottoposta a normativa. Eppure, quotidianamente, utenti adulti dei social network – che siano influencer da milioni di follower (e quindi motivati dall’interesse economico legato alle cosiddette visualizzazioni), o comuni iscritti alle piattaforme – postano immagini e video dei loro bambini, anche molto piccoli, anche neonati. Le situazioni in cui i bimbi sono protagonisti dei contenuti digitali appartengono generalmente alla sfera della vita domestica, familiare, intima. A decidere se tenere privati quei contenuti o pubblicarli sono i genitori, spesso dimentichi che il diritto alla privacy è di tutti gli esseri umani, infanti compresi. Il fatto che una bambina o un bambino non abbia la consapevolezza, né la possibilità giuridica, di far valere un proprio diritto non significa che quest’ultimo non esista. I bambini sono persone, non la proprietà di altre persone, nemmeno di chi li ha generati. “I nostri figli non ci appartengono” diceva qualcuno. I bambini di oggi sono gli adulti di domani: avranno un lavoro, delle relazioni, una reputazione, un posto nel mondo, e un’identità digitale già tristemente delineata. La rete Internet poi è il canale attraverso cui viaggia il mare sconfinato di dati che vi immettiamo. Ottenere il diritto all’oblio di quelli che, involontariamente o per volontà di altri, viaggiano nel web, è cosa assai difficile. Sarebbe quindi auspicabile che il mondo degli adulti si facesse davvero carico dell’importante responsabilità di cui è investito: proteggere la privatezza di chi non ha l’età e i mezzi per farlo.
Enrica Colasanto