45 anni fa la vittoria di Ettore Scola come miglior regista al Festival di Cannes. Un film, una storia: “Brutti, sporchi e cattivi”. Non c’è un minuto di normalità nella vita quotidiana di questa assurda fetta di umanità.
Il titolo di questo film è spesso usato come espressione per definire situazioni e persone e dare loro un connotato inequivocabile: “Brutti, sporchi e cattivi” (1976). Uno dei capolavori di Ettore Scola, insieme a “La Famiglia” e “C’eravamo tanto amati”. Il film è un affresco terrificante della borgata romana nel secondo dopoguerra. Duro, livido, crudo, un cazzotto in faccia in alcune scene, che danno vero fastidio fisico allo spettatore. Chi vi scrive non ama particolarmente Nino Manfredi, ritenendolo, seppur bravo, una spanna, se non due, sotto gli attori della sua epoca e parlo dei vari Gassman, Moschin, Ugo Tognazzi per citarne alcuni ma, in questo film, la prova attoriale è semplicemente straordinaria. Gretta, cattiva e cinica, grottesca e comica, con punte talmente reali da far venire letteralmente il voltastomaco. Il suo Giacinto interpreta in maniera feroce il capotribù dispotico, odioso, carogna all’inverosimile. Basterebbe la sua faccia per dare il titolo al film. I bene informati dicono che la realtà di quell’epoca, in quella particolare zona, era proprio così: baraccopoli con famiglie di 20 persone stipate in tuguri con bagno esterno e che dormivano uno sull’altro, che facevano sesso di fianco ai figli e ai figli dei figli, dove l’incesto era la consuetudine e i nuclei famigliari una pura formalità puntualmente disattesa. Le facce dei caratteristi accuratamente scelte per dare la perfetta idea di quella realtà in quel contesto storico. Un film in cui si ride, ma si prova sdegno allo stesso tempo e in cui le “simpatie” per i personaggi sono variabili. La paura di essere derubato di Giaginto, del suo milione avuto dall’assicurazione per aver perso un occhio, che lo porta a diffidare di tutti, a sparare al figlio per il solo sospetto di volerglielo rubare. La carovana che porta la nonna in carrozzella a prendere la pensione per poi spartirsi le poche lire e lasciare la vecchia ai nipoti che la riaccompagnano nella baracca. Dicevamo dei personaggi: perfetta Linda Moretti nella parte della moglie succube e vendicativa di Giacinto, vecchia e brutta e che pur trova nel venditore ambulante, con un riporto che va da orecchio a orecchio, il complice per far fuori la carogna. La pletora di figli dalle facce pasoliniane, che si arrabattano per fare qualche soldo nella maniera più disparata: chi ruba, chi si prostituisce (maschi compresi) e chi va alla giornata. Le due vecchiacce proprietarie dell’emporio sudicio e adatto a tutte le esigenze, dal mangiare al bere, alle camere per portare le puttane di quart’ordine e strozzine di professione. Alcune scene sono dei cult, come il mignottone napoletano, diventata l’amante di Giacinto, che mangia il maccherone caduto nel seno dell’ottava taglia come se fosse la cosa più naturale del mondo. La carovana che si dirige con pullman scassato nella discarica a cielo aperto per festeggiare la comunione di un nipote con tutta la famiglia, usando lo stesso pullman come sala ristorante. E la scena che più dà il senso al film: Giacinto che, avvelenato con un chilo di topicida nella pasta, pasta che solo a vederla ti dà (volutamente) il voltastomaco, che si procura il vomito con una pompa della bici, riempita dell’acqua di mare più putrida che si possa immaginare. Quella è una scena che in pochi avrebbero potuto girare perché i topi e lo schifo erano veritieri. Il film equipara i personaggi a bestie, sia per come si comportano, sia per come vengono trattati. Non meno schifosi dei ratti che girano come animali da compagnia liberi e grassocci. Un film per stomaci forti e per cui devi essere preparato psicologicamente, tanto che, quando passa in tv ti domandi: “Che faccio, lo vedo?”. Ma, allo stesso tempo, un neorealismo difficile da rendere in maniera più vera e, se la verità era quella, Ettore Scola è riuscito perfettamente nell’intento. Il finale, con la baracca venduta ad un’altra famiglia di 20 persone e data alle fiamme dai figli gelosi per poi rimetterla in sesto alla meglio e in cui dormono, ora, in 40, come porci in una stalla, con Giacinto che vaneggia in un letto stracolmo di persone: “Un giorno vi caccio a tutti quanti…”. E la bambina che si alza all’alba, l’unica durante il film percepita come la più assennata, quella che curava e accudiva tutti i bambini, che va a prendere l’acqua alla fontana, si gira e ha un pancione da fine gravidanza, come a scolpire nell’occhio dello spettatore il destino ineluttabile di quella realtà. L’ultimo schiaffo di un film tosto e duro da digerire.
Carlo Marrazza
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