L’indignazione è un sentimento molto comune e frequente. Tutti nella propria vita lo hanno provato e per qualcuno ne segue una presa di coscienza, poi una presa di posizione, in rarissimi casi una mobilitazione. Attivarsi e militare a sostegno di una causa sono spesso conseguenza dello sdegno provato rispetto a ciò che una volta o tante è sembrato fastidioso, ingiusto, intollerabile e quindi insopportabile. Quello che cambia tra un individuo e l’altro è il motivo dello sdegno. C’è chi si sente a disagio con la corruzione, chi mal sopporta la diseguaglianza sociale, chi fa della lotta alla disparità di genere la propria ragione di vita, chi incomprensibilmente non condivide la possibilità dell’aborto e conduce macchiettistiche battaglie, chi porta in piazza la lotta all’omotransfobia, chi si batte per la condanna e l’eliminazione di tutte le forme di razzismo. È quest’ultimo un tema così complesso che non si può che trattarne in questa sede un molto piccolo e limitato aspetto. Anche i movimenti anti-razziali cominciano con l’indignazione. L’ultima grande onda è quella che ha travolto gli Stati Uniti d’America nel bel mezzo della pandemia. L’uccisione, o meglio la ripresa video dell’uccisione di George Floyd, avvenuta il 25 maggio dello scorso anno nella città di Minneapolis per mano dell’agente di polizia Derek Chauvin (una morte che ha per movente lo stesso di tante altre centinaia che annualmente avvengono negli Stati Uniti) ha risvegliato il movimento del Black Lives Matter, nato qualche anno prima. Cortei, manifestazioni, pubblici discorsi, proteste e anche rivolte hanno infiammato tantissime città statunitensi nei mesi estivi seguiti alla brutale morte di George Floyd. Attraverso i media e i social network il terribile episodio e le sue conseguenze hanno raggiunto gli altri continenti, smuovendo l’opinione pubblica mondiale. Nel giugno 2020, postando una foto nera con l’ashtag #blackoutuesday gli utenti di Instagram di tutto il mondo hanno manifestato il proprio dissenso nei confronti del razzismo e degli abusi della polizia statunitense sugli afroamericani. L’Italia non è stata da meno e ad esporsi, appoggiando il movimento non sono stati solo privati cittadini, ma anche persone del mondo dello spettacolo, influencer, politici, persone con visibilità e potere mediatico. Tutto condivisibile, tutto giusto, tutto necessario, considerando l’importanza della causa e l’inevitabile risposta che la società è tenuta a dare alle discriminazioni e alle violenze ormai fuori tempo. Ci si chiede soltanto: quando non succede oltreoceano, quando succede a Sinayayogo Boubakar nella notte tra il 25 e il 26 aprile del 2021 di essere vittima di un agguato mentre era in macchina con altri due ragazzi e di essere colpito al volto da una scarica di pallini perdendo un occhio in un bagno di sangue, quando “Biggie”, così chiamano Boubakar per la sua stazza, è un giovane ragazzo originario del Mali, bracciante che vive nel ghetto di Rignano a Foggia, perché non parte la catena del #blackoutmonday (era un lunedì)? La sua colpa era essersi iscritto ad un sindacato, avendo forse la vaga speranzosa idea di condurre un giorno una vita dignitosa. Eppure non è il primo, ma solo una delle tante, tantissime e sconosciute vittime (ma che un nome, un cognome, una madre e un padre ce l’hanno) che negli anni ha fatto il caporalato, che da fenomeno tipico del nostro meridione si sposta anche, progressivamente, verso il nord Italia. Vivono in baraccopoli che di quando in quando prendono fuoco uccidendone qualcuno, in condizioni igieniche disumane, raccogliendo i nostri pomodori per più di 12h al giorno per misere paghe. Se provano a ribellarsi al potere dei padroni subiscono la violenza e la repressione che li vuole irregolari, non a posto, fantasmi. La storia di Sinayayogo (come quella di George Floyd) non è una storia isolata, un caso, un’eccezione, ma è una storia collettiva (come quella degli afroamericani in America), la storia di centinaia di migliaia di persone morte di lavoro, letteralmente di fatica, di insicurezza, di violenza, e a volte suicide. Ma per Sinayayogo Boubakar e per tutti quelli prima di lui e come lui (e per quelli con sorte anche peggiore) i riflettori non si sono accesi. Nessuna indignazione, se non quella di pochi conoscitori della situazione e sensibili ad essa. Nessun corteo, nessuna manifestazione, nessuna foto profilo nera, nessuna catena. Foggia è da noi e indignarsi era troppo, figuriamoci mobilitarsi. Se potessi scegliere un altro potere vorrei quello di rendere visibili gli invisibili.
Enrica Colasanto
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