C’era una volta una spiaggia libera. Solo che col tempo è diventata meno libera e più stretta.
C’era una volta una spiaggia, un pezzo di sabbia piccolo, ma accogliente per tutti, dove si andava d’estate a farsi il bagno, a conoscere persone, a fantasticare sugli amori estivi. Era l’isola di noi ragazzi di Laura, di quelli con cui si cresce insieme e si divide il tempo, che poi se siano gli anni migliori o meno, quelli dell’adolescenza, è un problema che sinceramente non ci siamo mai posti. E non lo abbiamo mai fatto perché in quella spiaggia non si facevano domande e non si cercavano risposte, perché l’unica verità, quella che contava, era quella della nostra amicizia. Adesso, quella spiaggia non c’è più, o meglio c’è, ma e a metà, forse a un quarto. Se ne sono presi un passo alla volta, piano piano, senza dire niente e senza che noi dicessimo niente, finché non ne abbiamo trovato un corridoio stretto, dove si sta stipati come in un treno merci e, se ti va bene, riesci anche a farti il bagno, in fila indiana, a turno. In compenso, però, se si alza lo sguardo oltre la staccionata alta, perché non sia mai che si rivolga lo sguardo dove non si deve, la vista si concede a spiagge caraibiche con le palme e i gazebo, con gli ombrelloni a metri di distanza e lunghe distese di sabbia dove poter giocare e scorrazzare in festa. E allora si comprende che quella spiaggia, quella dove ci sono le emozioni di un tempo e le immagini care, è giusto che scompaia, è giusto che faccia spazio a chi il Mare può permetterselo, perché anche quella, si sa, è faccenda privata. E va bene così. Tanto ci resta la consapevolezza di poterci ritornare, d’inverno magari e di nascosto, quando per noi che lì ci siamo nati e cresciuti il Mare è più democratico e libero e il padrone è da qualche parte, in letargo, a dormire con la pancia piena di ricordi rubati.
Pasquale Quaglia
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