“Complesso” [dal lat. complexus, part. pass. di complecti «stringere, comprendere, abbracciare»] è una bellissima parola polisemica. Un complesso è anche un gruppo di cantanti o di suonatori o una forma di coalizione in cui singole parti si fondono in un unico organismo. Ma l’accezione a cui guarderemo qui è quella psicanalitica (che tra l’altro fa riferimento ad un calco del tedesco, Komplex. Per il Sigmund più famoso di tutti “complesso” è “l’insieme di determinati fattori psichici che si formano e fissano durante la vita infantile e che derivano da situazioni emotive caratterizzate da un insanabile conflitto di sentimenti contrastanti. In quanti dei nostri comportamenti uno psicanalista non rintraccerebbe manifestazioni del complesso edipico, di quello di Elettra, del complesso d’inferiorità, o di quello di castrazione? È infatti in quest’ultimo senso che la parola “complesso”, al plurale e con l’aggiunta dell’articolo, diventa nome proprio ed è il titolo di una sottile commedia italiana del 1965. Se la rubrica di una strega può servire ogni tanto a dare buoni consigli (un cattivo esempio, ahimé, non ho abbastanza followers per esserlo) ne sto per approfittare. “I Complessi” è un film a episodi (scelta cinematografica molto esplorata in Italia a metà degli anni Sessanta). “Una giornata decisiva”, il primo di questi, è diretto da Dino Risi e vanta la lodevole interpretazione di Nino Manfredi. Il protagonista, Quirino Raganelli, giovane timido e impacciato, è segretamente (ma lei lo sa) innamorato della sua collega Gabriella. In occasione di una gita aziendale (l’ambiente e i tipi del mondo impiegatizio sono tratteggiati con spirito critico fantozziano) lui le confessa sommessamente i suoi sentimenti e le chiede di sposarlo. Gabriella che, come lui scopre, è già l’amante dell’antagonista, il collega macho fedifrago a cui nessuno sa dire di no, non aspettava altro. Nel finale della prima storia i complessi di Quirino avranno un peso decisivo. Alla regia del secondo episodio, “Il complesso della schiava nubiana”, c’è Franco Rossi. Ugo Tognazzi veste i panni di Gildo Beozi, deputato ipercattolico che cerca rocambolescamente di occultare le tracce del passato cinematografico della giovane moglie. Un seno scoperto e lo scandalo che ne deriverebbe diventano la sua ossessione ed i suoi complessi lo trascinano in un finale che ha il sapore del contrappasso dantesco. L’ultima storia è quella di “Guglielmo il dentone” ed è diretta da Luigi Filippo D’Amico, che si serve delle grandissime capacità attoriali di Alberto Sordi (che dell’episodio è anche co-sceneggiatore) per mettere in scena la vicenda di Guglielmo Bertone, il quale complessi proprio non ne ha (o si sono trasformati in grandi potenzialità). Aspirante lettore del telegiornale, Bertone ha tutte le carte in regola: la sua dizione e la sua preparazione culturale sono infallibili. La sua mancanza di telegenia (e di raccomandazione), però, è per la commissione un difetto non soprassedibile. Ma Guglielmo non è solo preparato, Guglielmo è uno a cui i complessi (più degli altri che suoi) hanno insegnato a vivere. È sempre sorprendente costatare come pellicole in bianco e nero di 50 anni fa siano in grado di fotografare quelli che ci sembra siano i segni distintivi della contemporaneità: il senso di inadeguatezza, la mancanza di coraggio, l’essere succube del giudizio altrui, la sudditanza nei confronti di tutte le forme di potere. Allora, non sono solo nostre?Se non lo avete ancora fatto, concedetevi una piacevole e distensiva (ma non troppo) serata guardando “I complessi”. Io ho sghignazzato come una vera strega.
Enrica Colasanto
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