Cinema di fiaba e di incubo, di estetica e di tecniche raffinate.
Il Maestro del brivido, Dario Argento. Per chi è a cavallo tra due generazioni, quella degli anni ‘80 e quella moderna, le sequenze, le scene, i costumi, le maschere delle pellicole di Argento, possono apparire grottesche, pecorecce, messe a confronto con il nuovo modo di fare cinema horror, spesso intriso di thriller psicologico, noir, ed effetti speciali da far rabbrividire, ma così non è. Dario Argento è stato un precursore, con l’uso di tecniche di regia all’avanguardia per l’epoca. Ossessione per i primi piani di occhi, bocca e mani, con i suoi personaggi negativi disegnati sempre con impermeabile, guanti di pelle e cappello. Già, i suoi personaggi. Le facce suscitano inquietudine anche oggi. Anche quelle dei buoni. Si potrebbe fare un paragone (irriverente, ma nemmeno troppo) con le facce di Fellini, sempre alla ricerca di volti particolari a fare da sfondo nelle sue pellicole più famose. I volti di Dario Argento erano quelli: aguzzi, sguardo allucinato, incamerati in dialoghi sincopati, col risultato di aumentare l’inquietudine dello spettatore ad ogni scena. Le scene. Spesso caratterizzate dalla indeterminatezza del luogo con l’azione che avveniva in città diverse, il senso di avulso, di distacco, che tutti i suoi personaggi avevano dalla realtà, l’attenzione alle psicopatologie, la descrizione dettagliata dell’assassino o del mostro, erano suoi marchi di fabbrica.
Ovviamente, non dimentichiamo le colonne sonore, sempre azzeccatissime ed entrate ormai nell’immaginario collettivo quando si vuole determinare una situazione di terrore. I Goblin, che hanno intriso di ansia ogni scena di “Profondo Rosso”, forse il suo film più riconosciuto. Quando partiva la musica cominciavi a mangiarti le unghie pronto a sobbalzare sul divano. “Phenomena”, con la scena della ragazza che entra nel bosco, sola, al buio e quella musica in sottofondo ad accompagnare ogni passo sperando che ne esca presto. Volendo sogghignare in maniera rispettosa, viene da chiedersi perché il personaggio principale si trova, almeno una volta, solo ad una fermata di un autobus in una valle sperduta, solo in un bosco di notte mentre piove, in una casa dove sono stati commessi delitti irrisolti e tutte le situazioni più inverosimili che ti portano a dire tra te e te: “Ma perchè ci vai?”. Dicevamo, nell’incipit iniziale, di un paragone irriverente con gli horror psicologici moderni e penso a “The Others” o al “Sesto senso” per citarne due tra i più riusciti, che hanno la caratteristica comune di lasciarti sconcertato all’ultima scena. “The Grudge”, “The Ring”, invece, sono film impostati dell’horror puro. Argento puntava sulla suspense per suscitare tensione emotiva nel pubblico durante tutto il film e, contestualizzando l’epoca, ci riusciva benissimo tanto da meritarsi il soprannome di Hitchcock italiano. Ricordiamo che erano gli anni ‘70 allorché uscì il trittico di film denominato poi la trilogia degli animali: “L’uccello dalle piume di cristallo”, “Il gatto a nove code” e “Quattro mosche di velluto grigio”. Nel 1975 il film che ancora oggi è il manifesto della cinematografia di Dario Argento, “Profondo Rosso” che è il punto di arrivo di una sperimentazione durata anni e che ebbe un successo di pubblico straordinario. “Suspiria” è il capostipite della trilogia sulle tre madri. Una fiaba gotica ambientata nella foresta nera, “Inferno e Tenebre” va a completare il trittico dove Dario Argento sfocia nel thriller, contemplando i temi a lui più consoni come i traumi psicologici, il feticismo, deviazioni sessuali e follia pura. “Phenomena” arriva negli anni ‘80 ed è l’ultimo film di un certo spessore in cui la mano di Argento è riconoscibile perché da lì in poi, a parere di chi vi scrive, complice anche, come detto, il salto di qualità delle tecniche cinematografiche, il regista produce film che sono quasi fuori contesto, quasi vintage, come ad un voler inseguire un metodo sorpassato, quello delle maschere col teschio, del liquido rosso usato come sangue e via dicendo. Ed ecco che pellicole come “Opera”, “La sindrome di Stendhal”, “Il fantasma dell’opera”, impallidiscono di fronte ai thriller psicologici dell’era moderna. Resta un grande Maestro, uno che, in un’epoca lontana, era il capostipite del brivido, uno per cui bastava pronunciare il nome. Già, anche il nome sembra fatto apposta per farti inquietare. E il fotogramma della faccia della vecchia impiastricciata di trucco, con gli occhi spiritati, riflessa per un solo secondo nello specchio, la maestra dell’accademia di ballo, il bambino col caschetto, che piange e poi si gira e ha la faccia da mostro, fanno accapponare la pelle anche oggi.
Carlo Marrazza
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