Abbiamo imparato tutti, a nostre spese, che ci sono storie difficili da raccontare, emozioni impossibili da esternare, sentimenti che rimangono dentro di noi e che sedimentano sotto il peso delle convenzioni. A volte siamo pervasi dall’entusiasmo e prendiamo col provarci ma, il più delle volte, siamo costretti ad arrenderci. È come se ci mancassero dei codici di linguaggio, come se non avessimo il biglietto giusto per affrontare un tale viaggio. Rovistiamo, per cercarlo, nelle tasche del nostro pensiero, perché vorremmo dire qualcosa su immagini, persone, vite, che hanno catturato la nostra attenzione, che ci hanno scavato dentro, che ci hanno provocato una leggera insonnia. Fatti e persone che non rientrano tra i clichè cui siamo stati abituati, umanità che mostrano la loro diversità con naturalezza e dignità e che non ci chiedono nulla, se non di essere guardati senza filtri. Già! Perché la diversità, che è una condizione di sofferenza quando si cerca di nasconderla o di mascherarla per allinearla alla normalità, diventa disagio, dolore, solitudine. Fin da bambina ho sentito forte l’impulso di entrare in un diverso sentire, di cercare gli strumenti per leggere e decifrare gli stati d’animo di chi si trova, per vari motivi, in una condizione disallineata, coloro che per semplicità abbiamo deciso di mettere tutti insieme definendoli astrattamente “ultimi”, concetto che, in maniera empia, divide, emargina, condanna. Eppure, di queste persone, ho pian piano imparato a leggere, attraverso sfumature espressive o, talvolta, anche da una inespressività quasi letteraria o cinematografica, sentimenti che alternano momenti di schiacciante e claustrofobica rassegnazione, contrapposti ad altri di esaltante e infantile slancio. Ho dovuto innanzitutto comprendere che la via non sarebbe stata quella di una visione esclusivamente romantica. Così, man mano che la mia vista si apriva, mi capitava di non commuovermi solo per il sorriso appena abbozzato di un barbone che, in cambio di un semplice sguardo, restituisce un’imbarazzante dolcezza, ma anche per quegli sguardi talvolta ingiustificatamente burberi, scontrosi, anche maleducati, che lo stesso soggetto ci butta addosso e che siamo convinti, maldestramente, di non aver meritato. Certo! Noi “normali” ci risentiamo molto quando veniamo “infastiditi” dalla diversità. Siamo inconsciamente sicuri di essere la “specie” dominante, e ogni azione che sfugga a una lettura che non sia da “Libro cuore” viene vista come una lesa maestà, come un’invasione di campo, cui reagire con lo sdegno e l’indignazione. Eppure, quanti mondi ci perdiamo in questo nostro piccolo mondo per sfuggire alla paura di ciò che è diverso. Per esorcizzarlo e tenerlo lontano da casa nostra. Quanti dettagli ci sfuggono in questa mesta posizione difensiva. Quante categorie stereotipate intervengono a classificare ogni input rendendoci, pian piano, sterili e limitati. Pensiamo, ci convinciamo, di saper guardare alla bellezza, eppure ci sono fonti alle quali non andremo mai ad attingere. Non accosteremmo mai questo “sacro” aggettivo a un individuo lontano da alcune caratteristiche. Ma, così facendo, quanta bellezza perdiamo? Quanti gesti meravigliosi, sguardi, pose, volti, lasceremo fuori dalla meraviglia cosmica del vivere? Io, nel mio piccolo, ci provo attraverso le mie poesie, che non riesco nemmeno a immaginare slegate da un tale impegno civile, che tenda alla ricerca di assiomi tra questi due universi sovrapposti ma che non si riescono a toccare, quasi fossero il fantasma l’uno dell’altro. Come accade per ogni percorso, gli spunti sono determinati da modelli e maestri che riescono a fornire un’ispirazione. Per me lo è stata, in maniera molto incisiva, Diane Arbus con la sua fotografia. L’artista newyorkese, scomparsa nel 1971, ha volto l’obiettivo della sua reflex verso la diversità degli esseri umani in maniera mai voyeuristica ma consapevole, riuscendo a far si che la diversità stessa non sminuisse i soggetti ritratti ma, al contrario, insinuasse il disagio negli spettatori, convinti della loro normalità, messa in discussione da un approccio così vero, schietto, mai caricato di orgoglio, ma nemmeno mai svilito da un timido doversi nascondere. In quegli scatti viene fuori la intrinseca bellezza della condizione umana, anche nei suoi aspetti più estremi. Così, una fanciulla lontana dai crismi della bellezza classica, emana una misteriosa e attraente fascinosità, che la fanno essere una Primavera contornata di fiori. Il suo sguardo sembra volerci suggerire che lei, al di là del suo aspetto, in quel momento non è diversa da Flora. Forse il suo corpo non lo sarà mai, ma il suo spirito, la sua essenza, vola leggera sugli stessi zefiri sereni. La Arbus ha regalato alla società contemporanea una possibilità, un album con le foto della festa dedicato agli “ospiti minori”, quelli che nessuno ricorda se davvero siano mai stati invitati, quelli che sono stati fatti sedere ai tavoli più lontani e che, comunque, sono qui, a partecipare con noi. Ci guardano, ci salutano da lontano, anche se per loro, in verità, siamo un po’ diversi. Sì, proprio noi.
Milena Cicatiello
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