Il diritto all’aborto e l’obiezione di coscienza: due diritti in conflitto?
In Italia la prima disciplina legislativa che abbia riconosciuto e previsto il diritto della donna di abortire è contenuta nella L. 22 maggio n.194/1978. Quando si parla di aborto, si fa riferimento all’ “interruzione volontaria di gravidanza”, inteso quale intervento che porta alla conclusione della vita di un embrione per ragioni esogene. Tale disposizione normativa ha rappresentato e rappresenta ancora un passo in avanti circa la tutela dei diritti delle donne. In quanto è stato previsto il diritto di interrompere volontariamente la gravidanza nel rispetto dei limiti imposti dalla legge. La donna può richiedere l’interruzione volontaria di gravidanza per motivi di salute, economici, sociali o familiari. “La donna, infatti, può abortire nel caso in cui accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica. In relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento. O a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”. (Art.4 L.194/1978). Peraltro, la situazione precedente era dominata dalla clandestinità delle pratiche abortive: fino al 1978 l’interruzione volontaria di gravidanza era considerata un reato. Nel 1975 la Corte Costituzionale depenalizzò il cd. aborto terapeutico, stabilendo che non poteva sussistere “equivalenza fra il diritto alla vita ed alla salute proprio di chi è già persona come la madre. E la salvaguardia dell’embrione che persona ancora deve diventare”. Tuttavia, nonostante le continue lotte e notevoli sforzi che hanno condotto al raggiungimento di tale traguardo, ad oggi, il diritto all’aborto non può definirsi concretamente esercitabile. Infatti, nel nostro ordinamento giuridico è previsto il corrispondente diritto dei medici di rifiutarsi di procedere all’aborto, ricorrendo alla cd. “obiezione di coscienza”. Per “obiezione di coscienza” si intende la possibilità di non ottemperare a un dovere che viene imposto dall’ordinamento giuridico, perché contrario alle convinzioni di carattere morale, etico o religioso di una persona. Dunque, se il medico è convinto che procedere all’aborto corrisponda a commettere un omicidio, è legittimato a non praticare l’aborto. L’unico caso limite, previsto in Italia dalla stessa legge che disciplina il diritto all’aborto (L.194/1978) è rappresentato dal mancato intervento che provocherebbe il pericolo di vita della gestante. Tuttavia, tale disciplina normativa non è in grado di fornire una tutela giuridica del diritto all’aborto in maniera eguale: basti pensare al fatto che, non in tutti i casi, la madre che scelga di abortire si trovi effettivamente in pericolo di vita. Anzi, si verificano molto spesso casi in cui la madre scelga di abortire, perché spinta da altri motivi personali, economici e sociali, ma che non sono riconducibili al suo stato di salute. Ed è proprio per il fatto che, da un lato, la legge sull’aborto non contempli casi diversi da quelli riconducibili alla salute della madre e, dall’altro, il protrarsi da parte dei medici di ricorrere in maniera smisurata all’obiezione di coscienza, ad oggi, in Italia si registrano dati decisamente sconcertanti che evidenziano una netta riduzione dell’aborto. In conclusione, sarebbe necessario un intervento normativo tale da organizzare i servizi di interruzione volontaria di gravidanza finalizzato a predisporre un numero di medici non obiettori sufficiente da garantire alle donne la possibilità di accedere alla pratica dell’aborto.
Valentina Cicatiello
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