Diciamoci la verità, lo scandalo panettone legato a Chiara Ferragni ha toccato un po’ tutti durante le scorse feste e continua, ancora oggi, a punzecchiare il nostro interesse. Disturba quelli (in pochi) che neanche sapevano dell’esistenza della influencer milanese, poiché, beati o dannati, vivono ancora con i piedi saldi nella realtà, e se la sono ritrovata sulle prime pagine dei giornali o a occupare le notizie dei tg, manco che la guerra in Palestina fosse una scaramuccia di poco conto rispetto allo stato d’animo dei Ferragnez; esalta, poi, quelli che mai l’hanno sopportata (non perdendosi, tuttavia, una singola storia) e non si sono lasciati sfuggire l’occasione di criticarla, attaccarla, insultarla, perché, si sa, la rete dà e la rete toglie, offrendo immediata luce dei riflettori e, al tempo stesso, repentine zone d’ombra da cui è difficile emergere; infine, ha messo in difficoltà i suoi followers, quelli che non sono fuggiti in cerca di un nuovo divo da spiare quotidianamente, ma sono rimasti fedeli alla donna che un tempo si “pensava libera” e, adesso, fa fatica a ripensare all’errore “di comunicazione” commesso. Loro, i suoi seguaci, più che sentirsi delusi accusano il peso di difendere l’indifendibile, poiché persino il J’accuse, in tono dimesso e austero, della loro paladina si è rivelato una mossa sbagliata. A me, che ancora sono indeciso in quale schieramento collocarmi, considerato che la sinistra, negli ultimi anni, pure sembrava avere nella Ferragni e suo marito i rappresentanti migliori (figurarsi gli altri), il pandoro-gate ha fatto ritornare alla mente i bei tempi delle scuole, quando la beneficenza, a modo ed esempio loro, me la spiegavano i professori di religione. Il primo episodio fu alle medie, opera di una suora che sapeva unire carità e teologia con pragmatismo e spiegava che le offerte sono sacrificio, che ha più peso mille lire (eh sì, all’epoca c’era la lira) donata da chi rifiuta di comprarsi un panino piuttosto che le cinquemila date da chi, conti alla tasca, ne aveva diecimila. Il secondo, invece, fu in una gita in Veneto durante i primi anni delle superiori, col cambio moneta avvenuto da poco tempo: ricordo che Padre Sigillino, pace all’anima sua, insegnante divertente e amabile (era anche interista) mi mise due euro tra le mani ordinandomi di posarli nel cappello annerito di un clochard, i suoi soldi, non i miei, perché a lui non interessava sentirsi dire grazie. Certo, sulla beneficenza e sul beneficio che essa comporta, spesso più a chi la fa che a chi la riceve, si potrebbe parlare per ore e nessuno avrebbe torto, visto che la ragione sta sempre nel prossimo e nell’aiuto che gli si dà, qualsiasi possa essere l’intenzione. Il problema della Ferragni, però, è un altro. È che quel grazie, che il mio professore neanche voleva farsi dire, lei se l’è preso e se l’è pure fatto pagare, a caro prezzo inoltre, e senza dare in cambio niente, se non la solita immagine di donna attenta a tutto ciò che la circonda o, meglio, che riesca a entrare nella schermata di uno smartphone.
Pasquale Quaglia