Sono definiti “instapoets”, neologismo entrato ormai nei vocabolari più accreditati, anche in Italia, e sono i poeti che utilizzano i social, in particolar modo Instagram, per pubblicare i loro versi. Tuttavia, non si tratta solo del semplice utilizzo di una piattaforma web in sostituzione del libro, ma di una vera e propria corrente letteraria, priva di un manifesto, ma rispondente a criteri che identificano in maniera alquanto omogenea la categoria. Si tratta di un fenomeno dilagante, che sfocia anche in quella che viene definita “chat poetry”, ovvero una forma di poesia contemporanea adagiata, oltre che sui canali, anche sul linguaggio tipico delle “chat”. Un universo letterario che coinvolge milioni di lettori quotidianamente ma su cui l’attenzione non è ancora puntata in maniera decisa. La critica letteraria ufficiale, per la verità, non sottace affatto il fenomeno che, però, sembra, proprio nella volontà di affermarsi come poesia, pagare il pedaggio dell’essere principalmente comunicazione. Una contraddizione che emerge con chiarezza quando si esaminano i tentativi, il più delle volte fallimentari, da parte di alcuni di questi nuovi poeti, di proporsi attraverso i canali più tradizionali dell’editoria. È come se quella poesia, fuori dal suo mondo virtuale e trasmessa senza il linguaggio binario, svanisse, si disperdesse, come un SMS in assenza di segnale o, peggio, senza il terminale. Salvo rare eccezioni, citiamo il successo planetario di Rupi Kaur, diventata a pieno titolo una star dei social e del libro. Le esperienze di migrazione, dal monitor alla carta, ci offrono subito e con chiarezza, una lettura dei punti critici e delle fragilità di questa nuova forma poetica e ci permettono di comprendere come mai, dal successo di migliaia di “like” e di “followers”, una volta in libreria, quelle opere sono destinate a passare inosservate e rimanere tristemente sugli scaffali. Un aspetto principale del problema è senza dubbio legato al fatto che i contenuti della poesia social vertono sulle relazioni, in particolar modo quelle amorose, in una forma compressa, superficialmente emozionale, da slogan a effetto, ma che risulta vaga e incapace di muovere una vera introspezione nel lettore. Secondo i sociologi che osservano questo fenomeno, è come se quei versi fossero messaggi scritti su un diario scolastico o incisi sui banchi di un liceo, a volte piacevoli da leggere, per la loro ingenuità e l’inconsapevole leggerezza di un tormento adolescenziale che intenerisce ma non colpisce e che, però, quando il Liceo sarà finito, non avranno più senso e saranno nient’altro che ricordi sbiaditi, soppiantati da nuovi cuori trafitti dalle freccette di un Cupido troppo giovane. Al restringimento tematico, che lascia fuori troppe sfaccettature, più complesse, del sentire umano, corrisponde, poi, un problema di forma. Infatti, il continuo adattarsi allo striminzito linguaggio social comporta che, al di fuori di tale contesto, esso risulterà scarno, povero, poco significativo se non incomprensibile. Stranamente, si osserva come fuori dall’ambiente “social web”, riescano a resistere più a lungo i famigerati “meme”, che possono diventare immagini per T-shirt, zainetti scolastici e gadget vari, mentre le “instapoesie” o “chat poesie”, scompaiono senza lasciare traccia. Va detto che la difficoltà di questo travaso, tra il mondo virtuale e quello reale, non è biunivoco. Infatti, la poesia tradizionale, che sia nuova o classica, inserita sul Web, riesce sempre e comunque a catturare il suo pubblico. Questo è un aspetto su cui certamente riflettere, perché, in qualche modo, è come fosse un campanello d’allarme sul rischio di affidare totalmente ai nuovi media, attraverso le sue forme attuali, il futuro delle nostre espressioni letterarie e, quindi, sentimentali. E poi, come avverte Beatrice Cristalli, nel suo “Poesia 2.0. La poesia presa nella rete”, questo percorso potrebbe portarci a una “progressiva perdita della capacità di distinguere i poeti veri”. Di fronte a questi dubbi, senza nulla togliere ai social, la penna e la carta continuano di certo a essere più rassicuranti.
Milena Cicatiello
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