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LA CULTURA DELL’INCLUSIONE IN UN CONTESTO POLITICO

Il concetto di normalità nella società occidentale è l’abilità a essere produttivi cioè generare un profitto per sé o per altri, quando non si rientra in questa idoneità si viene considerati diversi e la sua diversità viene definita con varie etichette che identificano un determinato deficit o distanza dalla normalità. Quando il deficit riguarda una diagnosi medica certificata, si usa il termine disabilità che rimarca nella sua stessa formulazione lessicale l’assenza di abilità, il non essere capaci di agire, fare, partecipare. La disabilità, soprattutto mentale, viene rappresentata in relazione a un deficit che la caratterizza, deficit inteso come mancanza, patologia, negatività: prevale l’idea della menomazione che non può essere modificata e la disfunzionalità che ne deriva finisce per diventare l’elemento prevalente del profilo di quella persona. La compromissione di una o più funzionalità ci porta a escludere che quel soggetto abbia anche delle potenzialità, qualità e possibilità di sviluppo in altri campi, addirittura anche superiori a quelle di altri individui classificati impropriamente come normali. Quello che sfugge è la considerazione del ruolo disabilitante dei contesti e dei sistemi di relazione sociale che fanno da cornice alla vita, ai bisogni e alle esperienze delle persone definite disabili. I contesti socio-economici creano barriere, steccati, recinti materiali, mentali all’interno dei quali vengono confinate persone considerate non utili secondo la logica produttivista. In particolare, la disabilità in senso stretto viene amplificata e aggravata proprio dai contesti socio-culturali e politici nei quali vive la persona considerata disabile. La mancanza di spazi istituzionali dove poter incontrare altri soggetti della comunità, la relegazione in residenze protette, la riduzione degli interventi a mera offerta di sussidi materiali o economici, la formulazione degli spazi e delle strutture di vita e di lavoro in modalità incompatibili con molte delle tipizzazioni nelle quali si declinano i vari handicap, l’offerta alle persone disabili di percorsi differenziati che alimentano lo stigma e il pregiudizio sociale, l’assenza sistematica di politiche e sedi istituzionali che promuovano e valorizzino le loro capacità specifiche, l’atteggiamento collettivo che nel migliore dei casi esprime compassione, sono, insieme ad altre ancora, le componenti di una cultura che, più che curare o sostenere la disabilità, la crea e la perpetua. Ma questo fatto, il fatto che le politiche sociali, previdenziali e del lavoro, i sistemi educativi, i servizi sanitari possano produrre e perpetuare condizioni di disabilità non viene mai preso in considerazione, analizzato, messo sotto processo. Un esempio di questo complesso fenomeno di svilimento concettuale e di incapacità progettuale è offerto dalla scuola. Nella scuola, gli alunni accompagnati da una diagnosi di disabilità certificata ai sensi della legge 104 vengono provvisti di un “Piano educativo individualizzato” (PEI) e viene loro assegnato l’insegnante di sostegno. Questi provvedimenti dovrebbero rappresentare l’impegno dell’istituzione scolastica nel calibrare attività, metodologie, strumenti e canali della didattica sulle specifiche caratteristiche del singolo studente certificato. Ma alla fine i contenuti del PEI rimangono strettamente aderenti alle esigenze di una programmazione disciplinare tradizionale. Al più, i tentativi di individualizzare la didattica consistono in una facilitazione o riduzione dei contenuti a degli obiettivi minimi che non mettono in discussione i programmi ministeriali e non modificano l’impianto tradizionale del modulo spiegazione e verifica. La lezione è soprattutto quella frontale, omogenea per tutti, nella quale si utilizzano canali di trasmissione, strumenti e approcci univoci, non diversificati, con la pretesa che essi possano essere validi per ognuno degli studenti della classe, a dispetto delle loro specificità e dei loro profili funzionali differenti. Come se ciascun alunno avesse la stessa maniera e capacità di apprendere, leggere, scrivere, ricordare, prestare attenzione, calcolare. Tutto il lavoro che invece andrebbe a indagare, evocare, promuovere le risorse mentali, cognitive, emozionali e a far sviluppare le potenzialità che potrebbero essere anche notevoli dell’alunna o alunno disabile viene reso difficile dalle modalità concrete in cui viene organizzato il servizio scolastico. In un contesto del tipo appena descritto, l’insegnante di sostegno potrebbe svolgere pienamente il suo ruolo previsto dalla normativa e cioè un’azione rivolta all’intero gruppo classe per rendere più inclusivo il contesto e facilitare e mediare lo scambio e l’arricchimento reciproco fra i soggetti etichettati come “deficitari” e i loro compagni. Invece, nella situazione attuale, l’opera dell’insegnante specializzato si riduce al semplice aiutino al ragazzo con difficoltà, standogli seduto accanto e supervisionando le elaborazioni dettate dal collega titolare della cattedra. Insomma, una specie di lezione privata, ma con molti limiti, primo dei quali una seria limitazione delle possibilità di scambio verbale per evitare di sovrapporre voci e disturbare la spiegazione, e ancora altre contraddizioni come talvolta l’appartarsi in un angolo dell’alunna o dell’alunno e dell’insegnante specializzato proprio per evitare che il loro bisbiglio interferisca con la comunicazione prevalente dell’insegnante curricolare.

Luigi Bernabò

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