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LA GUERRA, UN PERCHÉ.

Mentre la guerra sta sconvolgendo l’Ucraina ed il mondo intero, dobbiamo considerare che la guerra fondamentalmente cambia la storia e la geografia nel bene e nel male e, al di là del bene e del male, è giusto parlarne un po’ per cercare di capirla e capire un fenomeno complesso. Alle sue radici, nelle profondità del suo sottosuolo, c’è la natura ferina dell’uomo, che significa istinto aggressivo, difesa del proprio spazio vitale, volontà di potenza e di conquista, di sopraffazione e di dominio. Credo che tutto questo sia un contrassegno nativo, direi ancestrale, dell’essere umano, il che non esclude altre pulsioni, tutt’altro che secondarie e per nulla distruttive: i vincoli affettivi, amicali, comunitari; la realizzazione di sé nel lavoro manuale o intellettuale; la disponibilità all’aiuto del prossimo, ultimo, ma non ultimo, il desiderio della pace. Da sempre, gli uomini desiderano la pace, parlano di pace, progettano e realizzano opere di pace, ma da sempre fanno la guerra, impugnano le armi e tendono a riempire, insieme ai granai, gli arsenali militari. Non so se questa sia una maledizione divina, che grava su di noi, segnando opere e giorni della storia, ma da sempre c’è la consapevolezza amara che nella guerra moderna dovrebbero vigere codici di diritto internazionale che, di volta in volta, legittimano, disciplinano, condannano. Se, infatti, esistono criminali di guerra, vuol dire che ci sono modi in cui la guerra non va fatta, non dovrebbe essere fatta. Il tragico è che i codici valgono sempre per i vinti e si applicano nei loro confronti; i vincitori, invece, sono al di sopra di tutte le leggi. Comprese quelle di guerra. Ma chi è che vuole la guerra? E chi è che la fa? Dietro la guerra ci sono aspirazioni, ambizioni, interessi. Ci sono le nazioni, le patrie, gli stati, i governi, la politica, gli ideali, le ideologie, le banche, le industrie, la finanza. C’è la voglia di primeggiare o, quanto meno, di essere tra i primi e di non essere sottomessi. C’è la fascinazione dell’arricchimento: lecito o illecito. Ci sono l’idea della missione e l’immagine forte di un destino, capace di saldare i popoli in una unione sacra. C’è la presunzione che qualcuno ci abbia offeso e dunque una sorta di obbligo morale alla difesa. C’è il mito degli stati che non si conformano alla logica di potere dei super stati imperiali o di quelli che mirano a questo alto profilo geopolitico. Dentro la guerra ci sono i popoli e i soldati. I popoli amano la retorica: all’annuncio della guerra li percorre un brivido, sorpresa e sgomento, insieme all’emozione, all’entusiasmo che sventola bandiere e si commuove dinnanzi agli appelli alla patria. I popoli si entusiasmano, poi tremano e maledicono, coinvolti e travolti nell’orrore delle distruzioni che devastano le loro case, i loro beni e le loro carni, maledicono, vogliono la pace, sono costretti a subire fin tanto che governi, alta finanza ed alti comandi lo pretendano. Anche i soldati, quelli che hanno risposto alla leva e i volontari sentono allo stesso modo. Ci sono le attese e ci sono gli assalti: devi correre, colpire, ma puoi crepare perché sei carne da cannone, la tua individualità sparisce, ti mescoli con la massa, non conti niente, e devi obbedire, solo obbedire, mentre ti percorre l’angoscia perché vorresti tornare a casa, dalla mamma o dalla fidanzata, e riprendere il lavoro interrotto, e rivedere il tuo paese e gli amici e tutto quello che ti è stato portato via. Perché l’assalto, con tutto il suo terrore, può essere il momento più alto della tua vita: se superi la paura, puoi tirar fuori tutto il tuo coraggio e combattere per la patria, la gloria, l’idea, la memoria dei compagni morti ammazzati. La guerra umana, più che umana è mostruosa, ma unisce. Se poi ci sei andato da volontario, se ti arruoli in un corpo scelto, capisci davvero tutto, cioè che in quelle tenebre ci sono tanti bagliori di luce e capisci che dietro la retorica patriottica c’è l’immenso, grandioso momento della verità. Quello che ti rivela agli altri, ti svela a te stesso per ciò che sei. Un vigliacco, che è un brutto modo di essere uomini, non un eroe, ma un uomo al suo meglio, quello che fa il suo dovere o, se vogliamo, il dovere per chi sa di dover combattere un nemico, perché la guerra è, ma non lo odia, che è perfettamente consapevole che non avrà mai amici così simpatici e generosi, così belli, come quelli che ha avuto accanto, in trincea e in un assalto. Insomma, nella guerra, c’è di tutto e di più. In ogni caso, quella che è stata definita la nazionalizzazione delle masse. È brutto, e non vorremmo che fosse così, ma dall’odio per il nemico nasce, o si potenzia, l’amore per il prossimo. Il caso di una promiscuità obbligata santifica la causa. Orrore, ferocia, consapevolezza della precarietà generano amore. Pazza idea dell’amore per gli altri e per la patria, quella che magari non c’era prima della chiamata alle armi, qui c’è tutto l’uomo com’è, c’è l’uomo chiamato a compiere il proprio dovere o quello che gli altri gli impongono come dovere. La guerra è questo assurdo, assolutamente naturale. E la pace? Come non amarla e non auspicarla? Ma sarebbe davvero una menzogna dire che dopo la seconda guerra mondiale e dopo la fine dei totalitarismi neri e, in seguito, di quelli rossi, il mondo ha vissuto e vive in pace. Oltre al conflitto attuale in Ucraina, assistiamo a guerre dappertutto: non tra le grandi potenze, ma da parte delle grandi potenze, disunite negli scopi, ma unite nella lotta, al fine di sopraffare le piccole, in nome di ogni possibile logica imperiale. Chi vuole la pace? Chi potrebbe garantirla? Chi vuole la distruzione degli arsenali nucleari? Chi decide se si può o non si può avere la bomba atomica? Se non si risponde a queste domande cruciali, dopo aver raccontato i complessi scenari delle guerre, delle guerre fino ieri e della guerra di oggi, ogni arcobaleno pacifista si rivela un’utopistica dichiarazione di intenti, dileggiatrice della verità. E allora consideriamoli per quel che sono, uomini e governi, idee e fatti, dichiarazioni di principio e inconfessati fini. La verità fa male solo a chi non la vuol conoscere.

Luigi Bernabò

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