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LA MIA PATRIA ATTUALE – MASSIMO ZAMBONI

LA MIA PATRIA ATTUALE. Intervista a Massimo Zamboni.

Anticipato da Canto degli sciagurati e Gli altri e il mare, La mia Patria attuale è il nuovo disco di Massimo Zamboni, uscito il 21 gennaio per Universal Music Italia. Prodotto da Alessandro Stefana, storico chitarrista di Vinicio Capossela, La mia Patria attuale arriva a dieci anni di distanza dall’ultimo progetto solista di Zamboni. Per l’occasione, il musicista e scrittore emiliano ha chiamato a raccolta alcune vecchie conoscenze come Gigi Cavalli Cocchi, Simone Beneventi, Cristiano Roversi e Erik Montanari. Anche se in alcuni brani riaffiorano echi di quelle band che con il nome di CCCP e CSI hanno segnato la storia del punk-rock italiano, con La mia Patria attuale Zamboni inaugura un nuovo percorso nella sua carriera artistica, focalizzandosi su una dimensione più cantautorale, con testi di natura più letteraria, e utilizzando la voce come principale mezzo di espressione. La mia Patria attuale è un album dedicato all’Italia in un momento in cui prevale – giustificata – la mancanza di fiducia e di affezione. È un disco che si situa a metà strada tra la disillusione e l’incanto, tra la rabbia e lo sforzo. Perché esiste un’Italia che lavora, si offre, studia, sorprende, ci prova. E, soprattutto, che non ascolta l’urlo generale. Un’Italia di singoli che operano in microcosmi coraggiosi, fatta di talenti spesso silenziosi di cui il Paese non sente il bisogno, di istituzioni e associazioni che lottano giorno per giorno contro la sommersione, insistendo di voler esistere. Patria non è una parola leggera: contiene in sé il mascheramento delle diseguaglianze, l’esercizio della violenza in difesa di interessi personali o di casta. Ma Patria è ciò che abbiamo, che siamo. Perché, allora, è così difficile pronunciare questa parola? A questa domanda sono dedicate le dieci canzoni dell’album.

Quanto e in che modo è mutato il panorama musicale italiano? O meglio, a distanza di 10 anni, come lo ha ritrovato?

“Non conosco il panorama musicale italiano, non riesco a seguirlo. So come funziona, invece, il mondo della musica e questi due anni sono stati decisamente difficili per i musicisti. La musica ha bisogno di ritrovare una centralità, quella centralità perduta in nome dell’intrattenimento, del successo o dello scimmiottare modelli musicali che non ci appartengono, perché esclusivamente televisivi, e che non servono alla vita delle persone. Bisogna cercare altro nella musica: una spinta per vivere, cercare i pensieri, la complessità del mondo, cercare il contatto con tutto ciò che non è superficie”.

Nel brano Il nemico scrive: “Il nemico è penetrato nella mia città”. Chi è oggi il nemico? È forse qualcosa di radicato?

“Il nemico lo vedo davanti a me, è della mia stessa razza, parla la mia lingua, potrebbe esserci dell’assomiglianza tra noi che…non voglio riconoscere. Il nemico lo vedo in televisione che parla incravattato di politica, di patria, di interessi. Credo che un popolo di antica cultura come il nostro dovrebbe saperlo riconoscere immediatamente ma, ancora una volta, ci facciamo incantare dalle favole, come se fossimo bambini che devono andare a dormire presto”.

Perché per la lingua italiana è così difficile pronunciare la parola Patria? Forse l’ostilità deriva dalla strumentalizzazione che ne fece il Regime Fascista?

“L’ostilità nasce, certamente, anche da lì ma non voglio relegarla a quel periodo, sarebbe come dire che noi non c’entriamo, che appartiene al passato. Ciò che respinge di Patria, in realtà, io l’ho visto nel corso della mia vita: l’ho visto con i morti di Reggio Emilia, con le bombe sui treni, con gli scontri di piazza, gli imbrogli, le speculazioni, la corruzione. Ma c’è molto altro ancora: c’è la bellezza di questo Paese, c’è una grandissima parte di italiani assolutamente degna e onesta, che difende il proprio territorio e il suo lavoro, e ama la storia, la cultura. Patria è una parola che contiene tutto questo e non è facile districarsi tra il grande positivo e il grande negativo”.

Descrive la sua Patria attuale come “una fotografia in tempo presente di un Paese incapace di distinguere la propria storia dall’oblio”. Qual è, invece, la sua Patria ideale?

“È facile rintanarsi nell’idea di una piccola Patria. A me basterebbe vivere in un Paese normale, nel quale si ha la possibilità di essere cittadini, consapevoli di essere cittadini, e sentirsi utili per gli altri. Un Paese dove tu possa pensare che il tuo lavoro serva a qualcuno, che i tuoi studi servano a qualcuno e in cui non ti senta buttato ai margini, solo perché non conosci persone influenti. Un Paese in cui la parola Politica sia una parola pulita e non una parola sporca, dove sia proibito urlare e proibito mentire. Sono sogni molto fanciulleschi, me ne rendo conto, ma non è fuga dalla realtà. È la spinta dominante a fuggire dalla realtà, presentandoci un mondo assolutamente sprovveduto e fuori dal mondo”.

Il modo emiliano di portare il pianto…io l’ho cristallizzato nei versi “edificare ciò che più non è, chiedendo consolazione e senso all’atto del lavoro”. È proprio così?

“Data la necessità e l’obbligo del pianto – e quindi piangere si deve – ci sono diverse modalità per farlo. Un modo molto emiliano è buttarsi sul lavoro. Non a testa china, che sarebbe un’alienazione aggiuntiva, ma trovando il proprio ruolo nel mondo e dedicare quello che si sa fare agli altri. Costruire una collettività, un’universalità. Il lavoro è una benedizione, lega gli uomini – visti dall’alto è lo scambio del lavoro a tenerci insieme – ma non può essere dedito al consumo o al prevaricare sugli altri. Occorre che sia fonte di armonia e chi fa lavori degradanti non può permettersi questa parola. Occorre dare, quindi, questa dignità al lavoro”.

Che attinenza ha lo strumento della fotografia in copertina (realizzata, tra l’altro, da Piergiorgio Casotti) con il contenuto del disco?

“È uno strumento da lavoro trovato in Mongolia, è duro e feroce da vedere ma ha uno scopo assolutamente morbido, forse il più morbido del mondo: serve a togliere delicatamente il cashmere dalle capre che lo producono. Mi affascinava questo doppio polo: la ferocia da una parte, la morbidezza dall’altra. Mi sembra un doppio occhio con cui si potrebbe guardare anche il nostro Paese, che da una parte ci riempie di mollezze – perché baciato dal clima, dalla cucina, dal paesaggio, dalla cultura, dalla storia – ma dall’altra risulta respingente, inquinato, invivibile, corrotto”.

Mariangela Maio

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