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LA TRAGEDIA NELLA TRAGEDIA

Una pandemia – ne stiamo facendo esperienza – è di certo un evento tragico da tanti punti di vista. La malattia, i postumi della malattia, la morte, l’isolamento sociale, il disastro economico, la perdita di posti di lavoro, lo sguardo inevitabilmente pessimista rivolto al futuro. In mezzo a tutte le tragedie causate dall’epidemia di un virus contagioso, quella forse più umanamente insopportabile è l’impossibilità di vedere coi propri occhi i propri morti. Elaborare un lutto significa innanzitutto venirne a conoscenza, divenirne consapevoli, prenderne atto. E la conoscenza ci deriva in prima istanza, come sostenevano gli empiristi, dai sensi. Quando ascoltiamo la voce di qualcuno sappiamo che quello è il suono di un vivente, accarezzare il viso triste o allegro di un nostro simile ce ne conferma la vita, vedere un amico per un caffè ci informa del suo esserci. Allo stesso modo non sentire più una risata familiare, non poter abbracciare un nostro caro ci permette di pensarne la mancanza. Ma una mancanza è un vuoto, è immaginazione, è un concetto troppo più astratto di una morte. La morte la conosciamo se la guardiamo in faccia ed è solo dopo averla vista che comincia la “naturale” metabolizzazione della perdita. Poi potremo pensare all’ultima volta che abbiamo ascoltato la risata di un nostro caro, all’ultima volta che gli abbiamo dato un bacio, all’ultima volta che l’abbiamo visto gioire per qualcosa. Ma prima che i ricordi affollino la mente, prima che il dolore si impossessi di un cuore, e prima che quel cuore possa pian piano sentire meno dolore, la morte deve essere vista nel corpo esanime di qualcuno che ci apprestiamo a salutare per sempre. La materialità di un cadavere è quanto di più funzionale al processo di accettazione e poi (forse e in parte) superamento di un lutto. Non potevano non aver parlato di quanto sia drammatica l’assenza di materia nell’affrontare una perdita i tragici della Grecia classica. L’Antigone di Sofocle parla del rapporto tra ciò che è legge e ciò che è giusto, lei, la protagonista, incarna (nell’originale come nei numerosi adattamenti e rifacimenti dell’opera) la ribellione ad ogni tipo di sopruso e tirannia. Creonte, re di Tebe, vieta con un decreto gli onori funebri a chi si fosse comportato da nemico della città. Polinice, fratello di Antigone, muore assediando Tebe, ma lei, agendo contro la legge, dà sepoltura al consanguineo. Il tiranno la fa imprigionare in una grotta e lei si suicida. Muoiono suicidi anche Emone, figlio di Creonte e promesso sposo di Antigone, ed Euridice la moglie di Creonte, lasciando solo il sovrano. Nessun vincitore, nessun perdente, rimane aperto, vivo e sempre attuale il conflitto tra ragioni di Stato e ragioni personali. Ma un’altra tematica emerge dal fondo della grotta di Antigone: l’importanza del rito funebre e della degna sepoltura, voluta per tutti allo stesso modo dagli dei. Perché è così importante onorare la salma? Perché è così aberrante lo scempio che fa Achille del cadavere di Ettore sotto le mura di Ilio davanti agli occhi del padre Priamo? Perché il corpo è il luogo fisico che rende visibile il passaggio ad altra vita, il suo biancore è conoscenza, la sua rigidità è sapienza, freddo accoglie su di sé le lacrime calde, è il primo a consolare e alla fine diventa il tempio del ricordo. È a quell’immagine che sempre torniamo per commemorare e abbiamo assolutamente bisogno di commemorare il passato e chi vi è appartenuto. Per questo fa così male il coronavirus che ci sottrae così in fretta i corpi cari. Ci toglie un po’ di consapevolezza e, privati delle ultime immagini, fatichiamo ancor più a costruire monumenti nelle menti.

Enrica Colasanto

 

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