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LE VITE (NON) VISSUTE

Recensione alla raccolta di poesie “Le vite che non ho scelto” di Milena Cicatiello.

Milena scrive per il bramoso desiderio di diventare stella, non di vanità, sia chiaro, ma per portare luce e calore e speranza all’umanità invisibile, che sanguina nascosta in un’occhiaia o uno sguardo vitreo di ingiustificata indifferenza.

«Nata per difendermi da lui,

sono morta per difendermi da me».

(Ultimi versi da “Nata per difendermi” in “Le vite che non ho scelto”, prima sezione della raccolta).

Una donna infranta ancor prima di essere infranta; la disillusione esistenziale ancor prima di essere illusa, da qualcosa che sia tutta interna alle mura domestiche, alle mura della sua fantasia, al limite fisico entro il quale il corpo le impone di vivere una “vita che non ha scelto”.

«Arte è solo un altro modo di morire».

(Ultimi versi da “Gabbie” in “Eclissi”, seconda sezione della raccolta).

Esprimere sul foglio e lo schermo questo distopico racconto senza inizio o fine alcuna, non giova al suo ipotetico riscatto. Agire, scuotendosi, frammentandosi in versi compiuti e snelli, non resusciterà il suo Io originario e originale, prima del peccato universale. L’arte è necessità primaria, sopravvivenza, come il cibo e l’acqua, ma lascia sempre inappagati, insoddisfatti, bisognosi di procacciare altro nutrimento all’infuori di noi. L’arte è magra consolazione e conduce inesorabilmente alla morte come chi non la fa e non la crea.

«Non mi sono mai perduta,

finché non ho perduto

il senso dell’altrove:

il mio corpo è il mio spazio,

il mio posto nel mondo».

(Ultimi versi da “La ballata degli esuli liberi” in “Salvezza”, terza sezione della raccolta).

Nonostante la poesia diventi un nascondiglio, roseo e claustrofobico, triste e scintillante di aspettative ignote; l’uomo-donna si unisce in una profonda comprensione e totalizzante commiserazione della sua condizione. Insieme: gli uomini e le donne, aggregando questo disagio apparentemente insormontabile dell’essere al mondo, hanno la possibilità di redimersi e conquistare (anche solo per barlume) la consapevolezza dell’esistenza di una viscerale “compagnia” fraterna di leopardiana memoria.

«Così voglio amarti,

con la pelle di un’estranea

nelle vesti di sempre

e sbottonarmi tutta la poesia

che non sa venire al mondo,

eppur si ostina a non morire […]».

(Ultimi versi da “Ovunque cada la sera” in “La vita che ho scelto”, sezione finale della raccolta).

Il tempo esalta e distrugge ciò che scivola al suo interno, come in una clessidra; distrugge ed esalta senza alcuna pietà. Si possono cambiare “le pelli” di tanti involucri vuoti e piangenti, ma la linfa mai smette di fluire fin quando il cuore ha l’energia anatomica per battere forte. La vita si può sempre riconquistare, anche solo con la mente e la volontà di reagire all’orrore che il destino ci ha assegnato. Il tentativo ultimo è la nostra ultima speranza.

Rachele Siniscalchi Montereale

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