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Il cinema ritrovato

L’IMPORTANZA DEL FINALE

La scena finale. Quante volte siamo sobbalzati sulla sedia, ci siamo sciolti in un pianto a dirotto o rimasti letteralmente esterrefatti. Ma anche delusi, certo. La scena finale, soprattutto nei film degli ultimi due decenni, si è assunta la responsabilità di darti il classico pugno nello stomaco, in due modi: o stravolgendo l’intera narrazione del film, solo e unicamente con quella scena, o trascinandoti nei meandri più reconditi dell’anima, dandoti il colpo di grazia. Ovviamente, parliamo di film di livello alto. È certo che, anche negli anni passati, esisteva questo tratto narrativo, ma diciamo che negli ultimi tre decenni questa cosa si è accentuata di molto. Quasi una ricerca spasmodica, dove il racconto che ti accompagna per l’intera durata, e che fa ipotizzare, viene spazzato via in un nanosecondo. Rendere questo nanosecondo devastante non è cosa facile, ecco perché parliamo di cinema di spessore. Questa tipologia è indubbiamente figlia dell’evoluzione cinematografica. Negli ultimi decenni, la tecnologia, anche in film non propriamente tecnologici, fa fare e anche pensare cose che prima non potevano essere pensate. Si agiva di cervello e di talento. I film d’amore, ma anche i thriller, i film on the road, avevano trame che raccontavano una storia e che ti coinvolgeva, anche tanto, nel mentre, ma un po’ un’idea te la facevi, non perché fosse scontato, ma diciamo che la narrativa era diversa. Faccio il primo esempio che mi viene in mente: Duel, il primo film di Steven Spielberg, 1971. Film in cui la suspence ti attanaglia ma che può avere solo due soluzioni. E infatti vince una delle due. Ecco, questo per farvi meglio comprendere. Ora, come detto, da qualche decennio, molti hanno puntato sul finale. E alcuni sulla scena finale. Tipologia diversa, con l’incipit distratto della trama, che poi man mano si attorciglia con nomi e situazioni tanto da far pensare: “Va beh, mi sono perso qualcosa…”. Un po’ come nei libri, quando segui un lungo capitolo che ti proietta nelle pagine e nella storia. Poi finisce il capitolo, passi all’altro e leggi un’altra cosa, per poi, ovviamente, tessere la tela nel finale. Ecco, un po’ così. Esempio lampante e capostipite di quel che voglio intendere I soliti sospetti, Bryan Singer, 1996. Vorticoso susseguirsi di situazioni e gineprai, all’apparenza un dramma poliziesco, fino a quando non casca la tazza a terra a Chazz Palminteri e appare Kobayashi, mentre l’allora semisconosciuto Kevin Spacey appariva in tutta la sua grandezza mentre imparava a camminare. Una sequenza che ha dato il là ad un altro tipo di cinema. E bisogna dire che alcuni ci sono riusciti benissimo. The Others, un film che si dipana in una atmosfera cupa e livida, fatto, girato e recitato come meglio non si poteva. Poteva bastare quello e invece no. Scena finale che ti atterrisce. E non è un termine buttato lì a caso. Atterrito ero. Noi non siamo morti. Per andare più sul classico: The Game, Michael Douglas è nel suo habitat di ricco bastardo, dove si è trovato spesso. Anche quello è un finale che ti sorprende, ma non ti uccide. Come succede invece ne Il sesto senso. Quella è tipologia a parte, da accostare a The Others. È completo perché unisce una narrativa che comunque ti destabilizza, durante, e che poi ti piazza quel cazzotto sulle gengive alla fine. Altri ce ne sono. Che dire dell’espressione assurda e della mimica del quasi svenimento di un grandissimo Geoffrey Rush in La migliore offerta, quando scopre che le sue donne non sono più sulla parete custodita per decenni. Shutter island, Leonardo DiCaprio, tipologia diversa, quella che, alla fine, ti fa capire che hai seguito una trama che non era il film che hai visto. Cosa dire di Fight Club, e del Tyler Durden che non è mai esistito ma che è così presente. Quella è, ancora un’altra tipologia. Pensi che il film è bello, ci sono scene iconiche, ti è piaciuto e poi la scena finale. Già, la scena finale, quella che ti aggiunge un ghigno di soddisfazione ulteriore o una scarica di 220 volt, o un senso di angoscia che non ti lascia subito. O il senso di sorpresa che ti fa ammirare solo chi l’ha potuto pensare. Ecco, scene finali, tipologie diverse. Voglio chiudere con una scena di un film che non è stato visto da tutti, come quelli che ho elencato, ma che a me, sincero e ammirato verso quel che ho descritto, ha dato qualcosa in più. Scena finale di Una pura formalità, regia di Tornatore, interpreti Roman Polanski e Gerard Depardieu. Se vi piace farvi devastare, lo consiglio vivamente.

Carlo Marrazza

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