Sempre più si registra il distacco dalla politica e si abbassa sempre più il numero di cittadini che si recano alle urne ed anche in questa tornata la percentuale è scesa sensibilmente. Evidentemente siamo confusi dall’intruso, non vediamo più il male che lo ha generato. L’intruso è il populismo, cioè il soggetto politico che più di ogni altro segna l’epoca che stiamo vivendo, ormai terzo incomodo fisso della tradizionale partita tra destra e sinistra. Il male è sotto gli occhi di tutti, ma fatichiamo a dargli un nome, perché sta divorando le categorie tradizionali della politica con la crisi della rappresentanza, la fine del lavoro come strumento di inclusione, di libertà materiale e di cittadinanza, la rottura del patto di società che teneva insieme i forti e i deboli, consapevoli di far parte di una comunità di destino che chiamavamo società. Diamo un nome alla cosa. Quando l’individuo non si sente rappresentato e non sa che farsene dei suoi diritti di cittadino perché non si traducono più in realtà, siamo davanti ad una vera e propria crisi della democrazia. Questa è la grande novità con cui si chiude l’anno e si apre un’incognita. Il paesaggio democratico classico in cui siamo cresciuti e dentro il quale abbiamo immaginato il futuro dei nostri figli sta andando in pezzi. Dopo aver combattuto per un secolo intero la battaglia europea contro i due totalitarismi, la democrazia che ha vinto si ferisce da sola, perdendo forza e autorità. Non produce risultati rilevanti per le condizioni materiali delle persone, non governa le crisi dell’immigrazione, del terrorismo islamista, della finanza, tutte fuori controllo e refrattarie ad ogni sovranità, non esercita più quell’egemonia culturale che si era conquistata dopo la caduta del Muro, a cavallo del secolo, riducendosi quasi ad una qualsiasi credenza in un mondo che non crede più in nulla. Fino a porci la domanda più radicale e più scomoda: e se la democrazia che abbiamo creduto universale fosse soltanto una creatura del Novecento? Se fosse incapace di entrare nel nuovo secolo, e soprattutto di governare le sue contraddizioni. La politica si è spogliata della sua maestà, rinunciando ai paramenti sacri con cui si era resa riconoscibile per più di un secolo, coniugando i valori con la tradizione, la storia con gli interessi legittimi. Intendo dire che la pretesa di superare la destra e la sinistra fingendo che siano uguali, per puntare all’indistinto democratico ha condotto i partiti in un imbuto culturale che li sta stritolando. Una terra di nessuno dove la performance diventa la misura della leadership, l’improvvisazione prende il posto della cultura, il gesto politico sostituisce ogni progetto, e si consuma mentre si compie, lasciando solo cenere. Il risultato è un deserto culturale, dove manca la capacità nella destra di governo e soprattutto nella sinistra di elaborare un pensiero alternativo alla cultura dominante, con il riformismo che si è ridotto a pura tecnica di gestione, agitando il cambiamento per il cambiamento, proprio per mancanza di una vera ambizione culturale, senza il coraggio di immaginare e impersonare un’alternativa. Con il risultato che l’alternativa sembra possibile solo fuori dal sistema. Si capisce che di fronte a questo male della democrazia prosperino gli imprenditori del peggio, coloro che non pensano ai rimedi, ma all’unzione, perché non si propongono come medici, ma come becchini, dopo essersi nutriti della crisi che li ha generati. Gli untori della crisi rischiano di ereditarne gli avanzi, incapaci di convertire la rabbia sociale che eccitano e raccolgono in un progetto culturale nuovo, appagandosi soltanto di dare forma pubblica agli istinti e ai risentimenti: come se fosse possibile fare politica soltanto contro, senza mai qualcosa in cui credere. La conseguenza più rilevante non è nemmeno la partita contingente per il governo. Ma è il rischio che la buona vecchia cultura liberale e tanto più quella liberal-democratica stiano entrando in minoranza nel mondo occidentale. Il pensiero liberale ha influenzato le culture di governo della destra moderata e della sinistra riformista, le istituzioni e le costituzioni nate nel dopoguerra. Si capisce che il populismo, alla ricerca mitologica di un anno-zero, voglia cancellarlo. La sua scommessa è la politica senza cultura: non l’abbiamo ancora provata, si chiama tabula rasa.
Luigi Bernabò
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