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RAFFAELLA

Di qualche settimana fa è la triste e sommessa dipartita della regina della televisione italiana, Raffaella Carrà, una donna che non ha bisogno di presentazioni. Figlia prediletta di “mamma” Rai, milioni di ascolti al sabato sera, conosciuta e riconosciuta anche all’estero, ha condotto programmi televisivi spagnoli, scalato le vette delle classifiche musicali di molti Paesi, europei e latino- americani. La sua influenza nella cultura pop degli ultimi decenni del Novecento le ha inoltre conferito lo status di icona gay, punto di riferimento per l’immaginario della comunità LGBT. La morte di Raffaella Carrà fornisce l’occasione per parlare di qualcosa che non l’ha riguardata in senso biologico, l’“essere madre”, questione sulla quale, come tutte coloro che madri biologiche non sono, sarà stata chiamata tante volte a rispondere nella sua vita piena di successi lavorativi. In una intervista condotta da Paolo Bonolis a “Il senso della vita”, ha affermato che la natura non l’ha fatta essere mamma, ma, individuando appunto il senso della vita nell’amore, “…se non hai la fortuna di essere papà o mamma, sai quanto amore puoi dare a tanti altri bambini?”. Ed è quello che lei ha fatto nella vita, adottando bambini a distanza e ideando nel 2006, insieme al compagno Sergio Iapino, un programma TV, “Amore”, che portò in prima serata proprio la tematica delle adozioni a distanza. Di genitorialità e di cosa significhi si potrebbe parlare all’infinito. Altrettanto interminabilmente si potrebbe riflettere sulla maternità e cosa rappresenti. Quante sono le donne in età fertile che si sono sentire dire: “Se non sei mamma non puoi capire!”. Questa è la visione, temo maggiormente diffusa ed interiorizzata, che si ha della maternità. Come se a chi non si fosse riprodotta sia preclusa la comprensione completa della realtà, come se il partorire, educare e prendersi cura di figli propri possa dare un superpotere: l’intelletto. E allora, in questa stessa logica, si pensa all’essere madre come a qualcosa di primordiale, di connaturato all’essere donna, come se la maternità facesse da sempre parte dei progetti di madre natura per le sue creature di genere femminile, come se scritto nel DNA non ci fosse solo il colore dei capelli o la predisposizione ad ammalarsi di cancro al seno, ma anche il desiderio e la volontà di procreare. Come se in alcune circostanze, ed in particolare quando si assegnano, anche solo teoricamente, ruoli sociali, dimenticassimo che siamo molto più cultura, sovrastruttura, che natura. Se il progetto è unico per tutte (chi non è fertile lo è al di là della propria volontà) unico sarà l’obiettivo. Sotteso ad ogni discorso, a tutti i livelli, è l’indubitabile scopo di vita di una donna: mettere al mondo qualcuno a cui dedicarsi per il resto dei propri giorni, anteponendolo alla propria persona, e non per tramandarsi (a tramandarsi sono i papà di cui si prende il cognome), ma perché è nel donarsi e nel sacrificarsi per la propria discendenza che la donna si realizza. Apparirà questo un discorso provocatorio e anche anacronistico, le cose dovrebbero essere cambiate, migliorate, ma sospetto che molte idee, opinioni e modi di vedere siano talmente sommersi, più o meno pacificamente approvati e condivisi, che abbiano radici così profonde che sia quasi impossibile notarli ed esserne quindi consapevoli. Una volta riconosciute, però, le credenze come tali, se ne deve tentare e ottenere lo sradicamento. Spero che parlare di maternità, non come un dono, né come una tappa scontata o tantomeno obbligata, ma come l’espressione piena dell’eventuale volontà di una donna possa essere un buon modo per omaggiare Raffaella. E come canterebbe lei: “…Se lui ti porta su un letto vuoto, il vuoto daglielo indietro a lui. Fagli vedere che non è un gioco, fagli capire quello che vuoi”.

Enrica Colasanto

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