Doverosamente, parliamo di due personaggi che, da qualche giorno, non ci sono più. Uno, attore cinematografico, icona del secolo scorso, l’altro, prestato al grande schermo, ma che il teatro ha sublimato come autentico mattatore, come solo i grandi, anzi, pochissimi di loro. Sean Connery dà la sua impronta alla saga più longeva del cinema mondiale, quella degli 007. Le frasi, rimaste impresse nell’immaginario collettivo, sono, ancor oggi, basiche nei dialoghi di Daniel Craig, l’ultimo James Bond. E allora, il “vodka martini agitato non mescolato” e la presentazione all’interlocutore di turno: “Il mio nome è Bond, James Bond”. Sono ancora il marchio di fabbrica dello “sciupafemmine” che non teme nulla. Ma il Bond di Sean Connery era l’antesignano, quello a cui tutti si sarebbero ispirati. Scozzese purosangue, attore elegante, mai volgare, con una spiccata naturalezza nell’interpretazione. Pellicole come “Gli Intoccabili” hanno fatto la fortuna di altri attori, come Kevin Costner, grazie al suo carisma, ai tratti somatici marcati che ne esaltavano il fascino, peraltro anche in vecchiaia. Elegantissimo il cammeo in “Highlander”, con il suo Ramirez, che offusca il meno dotato Lambert, protagonista del film. Come dimenticare il suo personaggio ne “Il Nome della Rosa”. Quel Guglielmo da Baskerville, paziente mentore dell’apprendista Adso da Melk, indagatore le cui acute deduzioni richiamano il miglior Sherlock Holmes. Marchette a parte, come alcuni suoi film non degni del suo spessore, Sean Connery è di diritto nell’Olimpo dei Grandi. L’attore, colui che studia da attore, magari in accademie rinomate, con metodi consolidati. La persona che immedesima il personaggio. Nel caso di Gigi Proietti erano la stessa cosa. Proietti, nelle sue performance, era uno con cui potevi parlare all’osteria. Il suo romanesco era di vulgata, mai recitato, che ti arrivava come la chiacchiera di un amico. Il suo successo sul grande schermo arriva con “Febbre da Cavallo”. Il suo Mandrake incarna l’aspetto che descrivevo prima: l’uomo qualunque, il romanaccio perdigiorno che si gioca tutto sui cavalli, inventandosene di ogni risma. King, Soldatino e D’Artagnan, detti così, sono solo la Tris di Cesena. Pensi solo a quello. Un film fortunato perché, al pari dei vari “Fantozzi”, disegna lo spaccato dell’uomo medio di quegli anni e chi, meglio di lui, in questi panni. Ma la sua sublimazione, come detto, è il teatro, dove ben presto si capisce che “può fare da solo”. Ed ecco gli spettacoli come “I sette Re di Roma” in cui si esibisce in tutti i sette reali, dandogli connotazioni totalmente distinte, più altri personaggi. Incredibile. Un attore che ha appreso e non studiato, di qui la naturalezza della sua recitazione. Lui non interpretava, lui era e tu lo percepivi. Uno nato per fare quello. “A me gli occhi, please” e poi “A me gli occhi, bis” ne forgiano l’assoluta potenza. Un uomo solo in teatro. Spettacolari alcune sue trovate come lo scimmiottare gli esistenzialisti francesi, quelli che cantavano quelle nenie ripetitive con il girocollo di lana, ripetendo sempre le stesse frasi, prima cantate poi parlate. Ed ecco il genio che ti tramuta una semplice frase e la ripete per 5 minuti. Ma la stessa frase non è mai uguale a quella precedente per mimica, timbro e ritmo: “Nun me rompe er cà…Pourquoi…Sì me romp’ er cà. Sì, abbiamo capito. Ti sei rotto er cà…”.
Carlo Marrazza