Esiste in Italia, più che in altri Paesi d’Europa, un problema legato alla conoscenza della storia della Shoah, perché gli editori traducono poco e, così, quasi nessuno conosce le nuove ricerche e le recenti scoperte sul come e sul perché il genocidio degli ebrei e la macchina di morte e l’ideologia nazista hanno trovato terreno fertile all’interno di una Europa civile e colta. Pare, inoltre, che soprattutto i giovani siano spinti a pensare alla storia della Shoah come un fatto lontano, per il quale spendere una lacrima ogni tanto, in occasione del “Giorno della Memoria”, senza riuscire a pensare che la sua conoscenza storica approfondita ci consente di capire quanto di questo avvenimento ci riguarda ancora da vicino. Tuttavia, nei giovani si ritrova una forte disponibilità a voler capire e a conoscere, ma c’è bisogno di sollecitazione. A fronte di una proposta non riduttiva e non semplificatrice, i giovani accettano la sfida dell’approfondimento; escono dalla fase emotiva della conoscenza della storia e vanno alla ricerca dei legami tra il passato e il presente, cercando analogie, ripetizioni, similitudini. Tutto questo mi sembra importante. Ci sono segnali oggi che si voglia dimenticare, anche attraverso forme sempre più diffuse di banalizzazione e di semplificazione. Da quando la Shoah è diventata oggetto di mercato commerciale, si tende ad offrire allo spettatore del cinema o della televisione, ma anche al lettore di libri, storie che provocano forti emozioni, ma che non spingono ad andare oltre l’emotività di un momento. E, se si perde la comprensione delle fasi e del processo che dalla xenofobia hitleriana ha condotto allo sterminio, si dimentica, si perde la memoria. Perché memoria vuol dire: da un lato, conoscere la storia e approfondire i fatti nella loro complessità; dall’altro, cercare di capire come sia possibile evitare che quei fatti, quel male radicale si ripeta oggi, sotto forme diverse, certo, ma con la stessa violenza di morte. In Germania, più che altrove, centri di ricerca e Università hanno prodotto un’enorme quantità di studi sul nazismo, la Shoah, le dittature del ’900, sui lager e la loro storia e sul ruolo degli spettatori; interrogandosi da alcuni anni sul carattere e sulle ragioni che hanno condotto uomini comuni, quasi come noi, a diventare gli architetti dello sterminio. Queste ultime ricerche sono importanti, perché cercano di spiegarci come si diventa assassini di massa. Tuttavia, il vento della banalizzazione soffia ovunque. Anche in Germania, oltre che in Italia; al di fuori delle accademie e dei centri di ricerca si diffonde un racconto semplificato di questa storia, racconto che non ci vede coinvolti direttamente, quindi, in tal modo, pacificatore. Quanto alle manifestazioni dei nostalgici e dell’estrema destra, esse non sono nuove e, se i mezzi di comunicazione di massa non attribuissero ad esse così grande importanza, spendendo per loro pagine e tempo, non avrebbero il rilievo che hanno oggi. Più inquietante è, invece, un altro fenomeno: la paura dell’altro, e il pensare o il convincersi che ogni straniero è nemico, come già Primo Levi ammoniva nell’introduzione a Se questo è un uomo. “Per lo più questa convinzione – dice Levi – giace in fondo agli animi come un’infezione latente”, può manifestarsi in atti saltuari e scoordinati, come è il caso dei neonazisti o degli esponenti dell’estrema destra oggi, ma quando si erge a sistema di pensiero, quando viene assunta da una parte della politica, allora si accende un segnale di pericolo. Questa emersione diffusa in Italia e in Europa della nuova xenofobia e di nuove forme di razzismo, giustificate dal bisogno di sicurezza che le comunità esprimono sempre in misura maggiore, rappresentano un vero pericolo e sono un segnale d’allarme, perché anche nella Germania che vede l’avvento di Hitler e dei nazisti al potere, tutto prende inizio dalla xenofobia e dal razzismo, elevati a sistema di governo; un Reich dal quale prende origine l’utopia di una nuova Europa ariana. Il negazionismo oggi è ancora legato, per una stretta minoranza di persone, alla negazione dell’esistenza dello sterminio ebraico a mezzo delle camere a gas. Il negazionismo tradizionale è ormai senza più argomenti ed è sostenuto solo da persone che non conoscono la storia. Le risposte scientifiche sono state date a chi nega ancora la realtà dello sterminio. Lo sterminio degli ebrei, parte di un progetto razziale utopico, di un Regno millenario, e di una Nuova Europa ariana, trova la sua specificità nel fatto che tra tutti i soggetti e le comunità perseguitate (nemici del Reich, sinti e rom, omosessuali, testimoni di Geova, malati cronici e disabili, popoli del Sud del mondo), gli ebrei dovevano essere sterminati tutti, senza alcuna eccezione. Di loro non doveva rimanere nessuno. Per le altre comunità erano invece previste eccezioni e possibilità di sopravvivenza, dopo un’opportuna rieducazione. Non dimentichiamo mai che il sistema relativo ai campi di concentramento nazista era un mezzo di punizione, di costrizione al lavoro e di rieducazione. Solo lo sterminio rivolto agli ebrei non aveva previsto possibilità diverse. E gli ebrei scelti per il lavoro forzato, allo stremo delle loro forze, venivano comunque assassinati. L’obiettività totale nella ricerca storica non esiste, come non esiste in nessuna scienza sociale o scientifica. Il metodo di ricerca e il modo in cui si ricostruiscono i fatti del passato, dichiarando la propria posizione, il punto di vista, fanno la differenza. A questo punto diventa importante dare voce e identità alle vittime o, tutt’al più, agli spettatori, per fare comprendere che non bisognerà trovarsi mai più di fronte a giustificazioni di progetti o di ideologie atte a garantire la salvezza che si realizzano escludendo i diversi, gli oppositori, coloro che sono portatori di altre idee. Tuttavia, anche se non c’è totale obiettività nella ricerca sociale e storica, il metodo di ricerca con il quale si mettono in evidenza incroci e reti di documenti e di fonti diverse può consentire, insieme al confronto con altri ricercatori, di raggiungere risultati accettabili. La verità cui punta il ricercatore è una verità in divenire, mai assoluta, mai legata alla necessità della pubblica opinione o della politica di ottenere risposte utili a un determinato momento politico e storico. Per questa ragione, chi fa ricerca non pone mai un termine al suo lavoro. Credo nel ruolo della cultura che, se unita alla pratica di vita, alla testimonianza, può aiutare al cambiamento. Bisogna avere fiducia in una comunità che riprenda a praticare la solidarietà e la virtù quotidiana dell’altruismo, sappia superare l’indifferenza e accogliere la domanda di aiuto di chi è in difficoltà. La cultura da sola non basta. Non dimentichiamo che gli architetti dello sterminio erano giovani molto colti. Non bastano nemmeno concetti astratti: il “bene” va sostituito con “atti di bontà”, per esempio, con la pratica quotidiana di attenzione e di ascolto alla domanda di aiuto di chi ci sta accanto. Le ragioni dell’origine della Shoah stanno più che altro nella grande crisi politica ed economica, che si produce in Germania dopo la Prima guerra mondiale. È una crisi di confini, morale, economica e politica. Sembra ai giovani tedeschi che hanno visto i loro padri perdere la guerra e la dignità, di avere un dovere morale di riscatto, che ritrovano non nelle idee socialdemocratiche della neonata repubblica di Weimar, ma nelle correnti conservatrici dell’estrema destra e, in particolare, del partito nazista che promette una rinascita fondata sulla purezza della razza tedesca ariana, individuando le colpe del tracollo tedesco e della sconfitta proprio nell’impurità di sangue. È un dato di fatto che la grande cultura tedesca non abbia rappresentato una barriera al sorgere di quel male radicale e questo ci deve servire da monito. Cultura e pratica di vita devono camminare insieme, nella ricerca di forme di comportamento e di regole che uniscano, nel rispetto della differenza di ciascuno, individui e comunità. Una ricerca non semplice, ma che rappresenta la scommessa del futuro e la messa in pratica di quella promessa fatta ai sopravvissuti: MAI PIÙ!
Luigi Bernabò