Chi ha qualche anno, ricorda cosa era il cinema a cavallo degli anni ‘70 e ‘80. Si passava da lavori di assoluto rilievo, con geni riconosciuti dietro la cinepresa, a film imbarazzanti, pecorecci, sfornati a ciclo continuo, di quelli che potevi vedere su quei canali improbabili. A dire il vero, questo più negli anni ‘80 dove Nino D’Angelo spadroneggiava, Edwige Fenech, Gloria Guida, Annamaria Rizzoli, Renzo Montagnani, Alvaro Vitali facevano 28 film all’anno. Ma questa è un’altra storia, che magari racconteremo. Certo, avevano un loro perché. Parliamo degli anni ‘70. Erano i tempi in cui identificavi l’attore del momento, quello che era il simbolo della cinematografia del periodo. Un esempio calzante era Maurizio Merli, baffo biondo, capello fonato, riga di lato. Il commissario Betti. I film avevano titoli molto simili tra loro. Una volta indovinato il filone giusto, via con “Roma a mano armata”, “Napoli violenta”, “Paura in città” in cui il cliché era sempre lo stesso: il commissario, rude e dall’espressione sempre uguale, contro tutta la malavita possibile e immaginabile. C’erano quelle sceneggiature raffazzonate, una fotografia imbarazzante, l’alfetta della polizia che sbandava, il povero bambino zoppo che lo fa tornare sui suoi passi, strappando la lacrima. Patetico direte voi? Per nulla. Quel fascino vintage insieme a tutto quello che ho descritto avevano, come detto, un loro perché. Cosa curiosa è che spesso, gli attori di quel periodo, alternavano questa tipologia di film allo “spaghetti western”. Lo stesso Maurizio Merli, Giuliano Gemma per dirne un altro e, forse, il più grande di tutti: Tomas Milian. Chi, in cuor suo, non può dire che la metà degli anni ‘70 erano roba sua. Il suo commissario Giraldi, trucido poliziotto volgare e unto, dai modi spicci e dal vernacolo romanesco portato all’eccesso. Nico er pirata, er monnezza. Certo, sarebbe facile etichettare Tomas Milian con quello stereotipo ma, a mio parere, lui era un grandissimo attore. Protagonista di vari “spaghetti western” come “Tepepa”, prima di diventare l’icona della cinematografia poliziesco-comica. L’invenzione di quel personaggio che lo avrebbe identificato per tutta la vita. Ma anche, agli inizi, lavori con grandi registi, come Nanni Loy, Luchino Visconti, PP Pasolini, Denis Hopper. Il sodalizio più forte è stato senza dubbio con Umberto Lenzi con cui forse girò quello che ritengo un grandissimo film “La banda del Gobbo” in cui Tomas Milian interpreta anche la parte del cattivo. In maniera mirabile. Un killer spietato, gobbo, che fa la morale alle classi agiate in un modo violento, unico linguaggio conosciuto. Il suo monologo in una discoteca di periferia, con “mignottone” al seguito e mitraglietta scorpion è da tramandare, citando Venditti per avvalorare le sue parole (un cantante che nun se batte). Il suo ballo rachitico, il suo invitare la sua donna improbabile a divertirsi volevano essere la denuncia verso quelle classi sociali che guardavano a quelle persone come non degne di vivere. Tomas Milian evolve il suo personaggio, trasformandolo in una accezione più comica. Ed ecco che arrivano “Delitto al ristorante cinese”, “Delitto al Blu gay” e altri dove la vena ilare è più marcata con personaggi di contorno come Enzo Cannavale e l’immancabile Bombolo. La scena di “Nico Doppio Zero”, falso cantante iscritto ad un concorso di periferia per indagare su un crimine, con le Sorelle Ricotta, vestito di pailettes rosso fuoco con un playback sconclusionato, è il capolavoro del trucido applicato all’epoca. Tomas Milian ha lavorato con tutti i registi del periodo. Erano quelli: Corbucci, Festa Campanile, Fulci, proprietari di un cinema che, a guardarlo adesso, può sembrare finanche patetico. Ma non lo era affatto. E lui era un grande attore. Un cubano di nascita elevato a simbolo della romanità più popolare. Provateci voi.
Carlo Marrazza
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