Martedì 3 novembre 2020, le urne statunitensi decreteranno il nuovo Presidente. Trump o Biden, e per forza di cose l’uno escluderà l’altro donando un nuovo volto all’assetto governativo degli USA. I sondaggi delle più autorevoli agenzie a stelle e strisce affermano un vantaggio (5-6 punti percentuali) del candidato democratico Biden, il quale risulterebbe essere avanti nella maggioranza degli “Swing States”, ossia gli Stati idonei a condizionare in maniera significativa gli esiti elettorali quali il Minnesota (va da sé che a incidere potrebbe essere la questione legata a George Floyd), Florida, Arizona, Michigan e Wisconsin. Sembra in salita, quindi, la strada verso la Casa Bianca per Trump, il quale potrebbe pagare dazio soprattutto per la gestione disarticolata, obsoleta e farraginosa della pandemia, che difatti sta causando una perdita di terreno in tutte le fasce sociali: dai bianchi laureati alle donne, ai pensionati (fan del trumpismo, ma ora spaventati dalla sua linea dura sul coronavirus). Incide negativamente, inoltre, la questione dei disordini razziali e l’adozione di una politica mordace e dispotica da parte dello stesso presidente che non pochi malumori ha cagionato tra le comunità afro della nazione. Numerosi sono stati gli attacchi mediatici tesi a dipingerlo come un istigatore nonché fautore dell’odio. In un clima di generale tensione sociale ed economica, per di più anelante di pacificazione e certezze, potrebbe non rivelarsi vincente un atteggiamento di matrice autoritaria. Potrebbero, inoltre, giocare a suo sfavore le scelte di politica estera. Difatti, sul piano dei rapporti internazionali, Trump ha bloccato ogni negoziato di pace e disarmo con l’Iran, portato alle stelle la tensione con la Cina e ha aggravato, nonostante la pandemia, le sanzioni genocide contro Cuba, Nicaragua e Venezuela, mentre si moltiplicano i piani di intervento armato nella regione. Biden, invece, relativamente al programma elettorale, spinge su aspetti sensibili e nevralgici proprio dove pare aver fallito il suo rivale. Punto cruciale sarà la ricostruzione della classe media attraverso l’aumento del salario minimo federale a 15 dollari orari; il blocco dei tentativi dei repubblicani nella compressione dei diritti sindacali e della contrattazione collettiva; la creazione di 10 milioni di posti di lavoro nella “rivoluzione verso la clean-economy” ovvero nella transizione in chiave eco-sostenibile. In politica estera e migratoria Joe Biden propone di eliminare il “Travel Ban” che aveva sbarrato l’ingresso ai cittadini provenienti da Paesi a maggioranza musulmana come la Siria, di eliminare le politiche di asilo messe in campo da Trump, compresa la pratica che prevede la separazione delle famiglie di migranti irregolari al confine, e di riportare “un impegno nei confronti della scienza” e nella lotta al cambiamento climatico. Circa la sicurezza internazionale, il candidato promette che, nel caso in cui Teheran dovesse tornare a rispettare il patto sul nucleare, gli Usa rientrerebbero nell’Accordo NATO. Sotto il profilo dei contenuti, dunque, la battaglia è aperta e, nonostante alcuni punti a sfavore, Trump, da una prospettiva prettamente numerica, potrebbe ancora ribaltare le sorti elettorali dato che può essere riconfermato anche perdendo il voto popolare: gli basta prevalere nei collegi rurali e nel Sud. Nel 2016 vinse pur avendo avuto tre milioni di voti meno di Hillary Clinton. È stato calcolato che potrebbe farcela anche con 6-7 milioni di voti meno di Biden. Parola al popolo.
Mattia Tarallo