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“LE VITE CHE NON HO SCELTO” DI MILENA CICATIELLO – RECENSIONE

Recensione dell’opera “Le vite che non ho scelto” (Edizioni Piavani, 2022) della poetessa capaccese Milena Cicatiello.

Soggetto di un confronto corpo a corpo, dapprima dolcemente infantile, poi brusco e sempre più maturo, con un dolore inconfidabile che ne ha segnato l’esistenza, attingendo le forze da una continua reazione che le ha dato la coscienza cui può arrivare solo chi ha ingoiato il pianto, Milena scrive di sé offrendosi al mondo, non in sacrificio, ma per il bramoso desiderio di diventare stella, non di vanità, sia chiaro, ma per portare luce e calore e speranza all’umanità invisibile, che sanguina nascosta in un’occhiaia o uno sguardo vitreo di ingiustificata indifferenza. Vuole costruirsi, rinunciando a ogni difesa e senza più alcuna remora, uno spazio vero in cui liberare la sua esistenza, diventando, a tratti, non avendo altre risorse, compagna di viaggio del Male, per sconfiggere un altro Male (primordiale) che l’ha privata di ogni possibilità gaudente di interagire, piacere, amare. Un Male quest’ultimo che, vestito il suo corpo e penetrato fin dentro le ossa, ha neutralizzato le gamme dei colori dello spirito di una bambina-adolescente in cerca di orientamento e luoghi stabili in cui riposare.

«Nata per difendermi da lui,

sono morta

per difendermi da me.»

(Ultimi versi da “Nata per difendermi” in “Le vite che non ho scelto”, prima sezione della raccolta).

Una donna infranta ancor prima di essere intera; la disillusione esistenziale ancor prima di essere illusa, da qualcosa che sia tutta interna alle mura domestiche, alle mura della sua fantasia, al limite fisico entro il quale il corpo le impone di vivere una “vita che non ha scelto”. Milena ha vergogna della sua dimensione, della purezza fine a se stessa finita per mano di qualcuno o qualcosa di mostruoso e inattaccabile. Sconta la pena, la colpa, infinita e dannata di stare al mondo.

«Arte

è solo un altro modo

di morire.»

(Ultimi versi da “Gabbie” in “Eclissi”, seconda sezione della raccolta).

Esprimere sul foglio e lo schermo questo distopico racconto senza inizio o fine alcuna, non giova al suo ipotetico riscatto. Agire, scuotendosi, frammentandosi in versi compiuti e snelli, non resusciterà il suo Io originario e originale, prima del peccato universale. L’arte è necessità primaria, sopravvivenza, come il cibo e l’acqua, ma lascia sempre inappagati, insoddisfatti, bisognosi di procacciare altro nutrimento all’infuori di noi. L’arte è magra consolazione e conduce inesorabilmente alla morte come chi non la fa e non la crea.

«Non mi sono mai perduta,

finché non ho perduto

il senso dell’altrove:

il mio corpo è il mio spazio,

il mio posto nel mondo.»

(Ultimi versi da “La ballata degli esuli liberi” in “Salvezza”, terza sezione della raccolta).

Nonostante la poesia diventi un nascondiglio, roseo e claustrofobico, triste e scintillante di aspettative ignote; l’uomo-donna si unisce in una profonda comprensione e totalizzante commiserazione della sua condizione. Insieme: gli uomini e le donne, aggregando questo disagio apparentemente insormontabile dell’essere al mondo, hanno la possibilità di redimersi e conquistare (anche solo per barlume) la consapevolezza dell’esistenza di una viscerale “compagnia” fraterna di leopardiana memoria.

«Così voglio amarti,

con la pelle di un’estranea

nelle vesti di sempre

e sbottonarmi tutta la poesia

che non sa venire al mondo,

eppur si ostina a non morire […]»

(Ultimi versi da “Ovunque cada la sera” in “La vita che ho scelto”, sezione finale della raccolta).

Il tempo esalta e distrugge ciò che scivola al suo interno, come in una clessidra; distrugge ed esalta senza alcuna pietà. Si possono cambiare “le pelli” di tanti involucri vuoti e piangenti, ma la linfa mai smette di fluire fin quando il cuore ha l’energia anatomica per battere forte. Milena ci insegna che si può sempre scegliere una vita e ciò è possibile solo reagendo all’orrore della propria condizione, rigettandone l’ineluttabilità e sconfessandola come destino. Il tentativo, apparentemente estremo, è già certezza di avercela fatta. Perché chi è in grado di costruire da sé una possibilità, sa che non sarà mai l’ultima.

Rachele Siniscalchi Montereale

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